(A proposito di Tradurre un continente)
Seconda parte
La seconda parte del volume (“Altre rotte”) si apre con un intervento di Antonio Melis – sulle traduzioni italiane di Arguedas – che segnala anzitutto un punto dolente: lo scadimento delle recensioni editoriali sulla stampa, «il più delle volte ridotte a resoconti asettici o addirittura a spot pubblicitari appena mascherati», che sempre più spesso omettono bellamente il nome del traduttore, concorrendo in modo più o meno involontario a un deprezzamento generale della professione e, indirettamente, a una profonda diseducazione del lettore. Poi Melis passa a esaminare le difficoltà che presenta la traduzione dei romanzi andini, legate alla profonda diversità dei contesti culturali. Difficoltà che purtroppo non sono state superate, come dimostrano i numerosi esempi addotti, fra cui: il termine corredor, che ne I fiumi profondi di Arguedas è stato tradotto da Umberto Bonetti con “corridoio”, laddove invece, in Perù, indica i porticati delle case; o amaru, tradotto semplicemente come “serpente” quando si tratta di un animale con connotazioni mitiche; la frase “Ho visto San Giorgio combattere la tarantola” risulta francamente surreale e incomprensibile, se non si specifica che nell’originale San Jorge è il nome di un insetto particolarmente aggressivo; e del tutto fuorviante risulta la traduzione di cerro con “colle”, laddove si parla di montagne di 4-5000 metri. Anche in questo caso, dunque, il giudizio non è certo assolutorio: «Di fronte alla irriducibile diversità del mondo andino, il traduttore si propone di avvicinarlo al lettore italiano, ma pensa di farlo privandolo delle sue connotazioni ambientali, umane e linguistiche specifiche».