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Il Congresso dei Visionari

Il mio giornale era in crisi per il quarto anno consecutivo. Un’altra annata disastrosa sul piano finanziario, con decisioni pessime e strategie politiche fallimentari, per non parlare delle tirature ridicolmente basse. Eppure, anche in queste condizioni, continuava a uscire in edicola. Ogni mese c’erano meno giornalisti, meno impiegati, meno segretarie, meno attrezzature, e naturalmente meno lettori. Ogni tanto arrivava un nuovo assunto, lavorava qualche giorno o un paio di mesi e poi scompariva. Il giornale non si vendeva e non c’erano soldi nemmeno per le biro. Tutto sembrava un lusso: chiedere una cartuccia d’inchiostro per la stampante, la riparazione di una fotocopiatrice o il rimborso spese per un viaggio. Nessuno si azzardava a dirlo ad alta voce, ma ormai la fine era imminente. 

Qualsiasi opportunità di uscire dalla monotonia e da un perenne stato di depressione mi sembrava allettante. Perciò, quando ricevetti l’invito per il Congresso dei Visionari, ero entusiasta e mi affrettai a sollecitare che mi mandassero. Non che l’evento mi interessasse in modo particolare, mi ero comportato allo stesso modo con la maggior parte degli inviti che erano arrivati sulla mia scrivania. Fu un puro caso che in quell’occasione mi abbiano dato il permesso e un po’ di denaro per assistervi. 

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Naief Yehya, L’offensiva di Natale

Era la notte di Natale, non c’era niente di più appropriato per finire un’annata grama che andare a mangiare il tacchino da mia sorella e da quello spaccone di mio cognato. Ero senza lavoro da sei mesi, mia moglie se n’era andata, voleva divorziare ed era incinta del mio amico Efraín. Mia sorella aveva insistito perché non passassi la serata da solo. Non avevo voglia di ascoltare le fanfaronate di mio cognato sui suoi affari e le sue conoscenze, ma mi passò per la testa l’idea meschina che, oltre alla cena gratis, magari mi avrebbe proposto un lavoro. Ero veramente disperato.

Arrivai di buon’ora all’appartamentino dei miei parenti. L’albero natalizio e le decorazioni rendevano ancora più opprimente e claustrofobica la pesante atmosfera che sovrastava l’arredamento. Poche volte ho visto una tale densità di statuette di porcellana, metri quadrati di velluto e apparecchi elettronici in così poco spazio. I miei nipoti uscirono dalla loro stanza e appena videro che ero arrivato a mani vuote fecero dietrofront e scomparvero dietro la porta senza dire una parola.

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