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Sento l’orgoglio del vampiro (Profilo di Enrique Vila-Matas)

“Sento l’orgoglio del vampiro. Per esempio, per anni ho agito in letteratura come un perfetto parassita. In seguito ho cominciato a liberarmi di quell’attrazione per il sangue delle opere altrui e addirittura, con la collaborazione di queste, ad appropriarmi di un’opera inconfondibilmente mia: discreta, di culto, mezza segreta, forse eccentrica, ma che mi appartiene ed è ormai ben lontana dall’omologato esercito dell’identico.” Così Enrique Vila-Matas nel suo ultimo romanzo pubblicato in Italia (Il mal di Montano, tr. di Natalia Cancellieri, Feltrinelli 2005). Già Borges, a proposito dei testi raccolti nella sua Storia universale dell’infamia, aveva scritto nella prefazione del 1954: “Sono il gioco irresponsabile di un timido che non ebbe il coraggio di scrivere racconti e che si divertì a falsificare (talvolta senza alcuna giustificazione estetica) storie altrui”. E Vila-Matas, appoggiandosi al Maestro (“mi sono sentito ancora più in pace nel constatare, per esempio, che Borges era stato un caso assai creativo e astuto di parassitismo letterario”), e a Walter Benjamin (“diceva che nel nostro tempo l’unica opera realmente dotata di senso – anche di un senso critico – dovrebbe essere un collage di citazioni, frammenti, echi di altre opere”), dopo averci confessato di essere stato un parassita e di averne sofferto, finisce per rivendicare la legittimità e la produttività del procedimento. Anche nella Storia abbreviata della letteratura portatile (tr. di Lucrezia Panunzio Cipriani, Sellerio 1989), del resto, si poteva leggere: “Marcel Duchamp affermò che il parassitismo era una delle Belle Arti”. E l’inquietante presenza del mago Aleister Crowley e di tutto un proliferare di doppi, golem e odradek (l’essere misterioso di un racconto di Kafka) nelle pagine di quel libro, che per altri versi ostentava una convinta adesione ai dettami di “levità” proposti da Calvino, testimoniava l’insorgenza del malessere del vampiro. Il mal di Montano, tuttavia, questo malessere lo denuncia fin dalle prime pagine: “La letteratura mi soffoca ogni giorno di più, giunto ai cinquant’anni mi angoscia pensare che il mio destino sia di finire trasformato in un dizionario ambulante di citazioni”. Ed è la struttura stessa del romanzo, oltre alle inusuali annotazioni autobiografiche, per quanto camuffate dal gioco di specchi dei doppi, e agli ancor più inediti slanci lirici, a rivelarci che non ci troviamo di fronte a una semplice declinazione dei temi preferiti di questo autore.

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