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Percorrere questa distanza

I grandi malesseri causati dalle ombre, le visioni malinconiche sorte dalla notte,
tutto ciò che è orripilante, tutto ciò che è atroce, ciò che non ha nome, ciò che non ha un perché,
bisogna sopportarlo, chissà perché.
Se da mangiare non hai che immondizia, non dire niente.
Se l’immondizia ti fa male, non dire niente.
Se ti mozzano i piedi, se ti bruciano le mani, se la lingua ti marcisce, se ti spacchi la schiena, se ti spezzi l’anima, non dire niente.
Se ti avvelenano non dire niente, neanche se ti escono le budella dalla bocca e ti si rizzano i capelli in testa; anche se annegano i tuoi occhi nel sangue, non dire niente.
Se ti senti bene non sentirti bene. Se ti fermi non fermarti. Se muori non morire. Se ti affliggi non affliggerti. Non dire niente.
Vivere è difficile; cosa difficile non dire niente.
Sopportare la gente senza dire niente non è per niente facile.
È molto difficile – in quanto pretende che la si capisca senza dire niente,
capire la gente senza dire niente.
È terribilmente difficile eppure molto facile essere gente;
ma la cosa difficile è non dire niente.



(Questi versi appartengono al poema “Recorrer esta distancia”, del 1973, che figura nel volume Immanent Visitor – Selected Poems of Jaime Saenz, A Bilingual Edition. Berkeley, University of California Press, 2002. È possibile leggere interamente il volume qui:

https://publishing.cdlib.org/ucpressebooks/view?docId=kt9m3nc9hd&brand=ucpress
Devo la segnalazione allo scrittore argentino Ariel Luppino, che ringrazio.)

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Jaime Saenz, Felipe Delgado

Se vi incuriosiscono gli autori eccentrici e le letterature periferiche, se amate la scrittura intrisa di poesia e non vi turba la presenza di un elevato tasso alcolico nelle pagine di un romanzo, spero non vi sia sfuggito Felipe Delgado, del boliviano Jaime Saenz (1921-1986), pubblicato l’anno scorso. Poeta lirico d’ispirazione neoromantica e di simpatie surrealiste, di contenuti ermetici e atmosfere oniriche, circondato da un’aura di “maledetto” per le sue abitudini da boéhmien e per le provocatorie dichiarazioni di simpatia per il nazismo (di cui, fortunatamente, non si trova traccia nella produzione letteraria), Saenz pubblicò questo romanzo nel 1979, suscitando in patria un forte impatto e interpretazioni divergenti. Questa biografia fittizia (forse sarebbe meglio dire autopsia) di un giovane della capitale boliviana negli anni ‘30 dispensa infatti in 700 pagine una materia densa, stratificata, che non si lascia ricondurre a schemi risaputi.

Alla morte del padre, Felipe comincia a dilapidarne l’eredità in una taverna (rovescio del mondo diurno, razionale), dove trascorre tutto il suo tempo con personaggi pittoreschi tra cui spicca l’esoterista Oblitas, immergendosi via via in una disperata ricerca di autenticità guidata unicamente dai suoi demoni interiori esacerbati dall’alcol. Né l’amore di Ramona, che presto gli viene strappata da una malattia, né l’interessamento di un amico del padre preoccupato per la sua salute mentale, che lo convince a lasciare la capitale per ritirarsi a vivere in campagna suo ospite, distoglieranno Felipe da un “programma esistenziale” che consiste nel lasciarsi vivere senza coltivare speranze e senza rifuggire dalla sofferenza, rifiutando il lavoro e qualsiasi attività che non sia una sorta di contemplazione nichilista, fino a scomparire misteriosamente. Ma l’alchimista Saenz combina con sapienza i suoi materiali, sviluppa episodi esilaranti, scolpisce figure a tutto tondo, e alla fine ci si rende conto di aver letto un inno alla vita.

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