Mme. Pignou si fermò estasiata davanti alla vetrina di uova pasquali all’angolo fra Henri-Monnier e Victor Massé. Era da una settimana che non mangiava, non per mancanza di pane, certo, ma per golosità. Non comprava mai più di un uovo di pasqua ogni anno e digiunava per una settimana, leccandosi i baffi davanti a tutte le vetrine del distretto 9 prima di scegliere l’uovo di pasqua dei suoi sogni. Questo era quello giusto. Prese dalla loro custodia, che teneva nella vecchia borsa di pelle nera, un paio di occhiali per guardare i prezzi. Si domandò se cento voleva dire dieci franchi o mille e finalmente, ormai decisa, entrò nella pasticceria facendo squillare il campanello della cassa, che in quel momento era deserta. Una giovane prostituta, dal colorito fresco e con un barboncino sotto il braccio, entrando quasi nello stesso istante, per poco non la travolgeva. «Voglio una pizza» disse alla pasticciera, che usciva in quel momento dal retrobottega. La pasticciera avvolse la pizza in un pezzo di carta e gliela diede dicendo: «Tre franchi e cinquanta, grazie». L’altra prese la pizza e cominciò a mangiarla, dando le briciole al barboncino. «Lei che uovo di pasqua mi consiglia?» domandò Mme. Pignou alla pasticciera. «Dipende dall’età» rispose quella. «È per me» disse Mme. Pignou e sentì la risata della prostituta alle sue spalle. Mme. Pignou si voltò, indignata. «Signorina» disse la pasticciera, «le pizze si mangiano fuori, mi faccia il favore.» La giovane prostituta uscì, spingendo con un gomito la porta a vetri, e con il cagnolino nell’altra mano. «Io avevo pensato all’uovo al centro» disse pensierosa Mme. Pignou, «quello con il nastro rosa.» La pasticciera andò a prenderlo. «Ma questo è intollerabile!» gridò arrivando alla vetrina, «la ragazza sta facendo pisciare il suo cane sul mio marciapiede!» E uscì dalla pasticceria apostrofando la giovane prostituta. Mme. Pignou si avvicinò alla vetrina, ma non riuscì a sentire niente. La pasticciera gesticolava, il barboncino la morsicò al polpaccio, la giovane prostituta lo prese e fuggì con lui verso rue Frochot.
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Copi, Virginia Woolf ha colpito ancora
Traduzione dal francese di Lorenza Di Lella
Ero seccato con il mio editore perché voleva per forza farmi aggiungere un racconto alla raccolta: sette secondo me era un numero che portava male; d’altra parte erano racconti piuttosto «esili», come si suol dire, e non bastavano a raggiungere un numero di pagine decente per un libro. Gli proposi delle poesie che avevo scritto in gioventù; le rifiutò educatamente, adducendo la scusa che in linea di massima una raccolta di racconti dovrebbe contenere solo racconti. E illustrazioni? Da qualche parte, in un cassetto, avevo ancora alcuni miei vecchi disegni, potevamo servircene per rimpolpare la raccolta, magari ritagliando le singole vignette e ingrandendole in modo da riempire con ognuna un’intera pagina. Il che avrebbe ridotto notevolmente il mio lavoro. L’editore mi fece notare che quei disegni erano passati di moda, invece si aspettava grandi cose dal mio talento letterario. Avevo già sbagliato diversi romanzi, insistetti, e poi non avevo la benché minima idea per un racconto, ecco tutto. Riattaccammo, salutandoci da buoni amici. Era almeno da un anno e mezzo che non mi veniva un’idea per un racconto, quelli che gli avevo rifilato al momento di firmare il contratto li avevo ricavati da vecchi numeri di «Hara-Kiri» e non ne ricordavo né l’argomento né il titolo, con ogni probabilità si trattava di quel genere di racconti che si scrivono in fretta e furia per arrivare a fine mese quando si è a corto di marijuana. All’inizio di luglio mi imbattei nel mio editore in una discoteca gay del nostro quartiere. Ci ritrovammo a ballare il twist uno di fronte all’altro. Il mio editore è più alto di me, sembra Sylvester Stallone.
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