Un giorno di ottobre di tre anni fa ci lasciava, novantenne e lucido, Ramiro Pinilla. È sufficiente dire Ramiro: era così che lo conoscevamo. Era della classe di mio padre, il 1923. E non coincidevano solo nell’età. Entrambi erano legati al mondo del lavoro, che Ramiro, prima nella marina mercantile, poi in una fabbrica di gas e in una casa editrice, combinò come poté con la scrittura. Erano appassionati di calcio, uno tifava per i biancorossi dell’Atlético Madrid e l’altro per i biancoazzurri dell’Espanyol di Barcellona. È possibile che in quei colori iniziasse e terminasse la loro unica religione. Credevano inoltre in quella sinistra internazionalista, proletaria, che propugnava la fratellanza tra i popoli e i diritti dei lavoratori, e che a quel tempo non sapeva niente di bandiere regionali né subordinava i suoi principi ai sentimenti identitari.
Ramiro e mio padre avevano vissuto la guerra civile da adolescenti, e senza avervi partecipato erano stati sconfitti. Forse in uno di quei giorni di esplosioni e di fumo i due ragazzi si erano incrociati in una strada di Bilbao. Mio padre era stato imbarcato su una nave da carico gremita di bambini rifugiati diretta in Francia. Se l’avessero portato in Russia, io non sarei nato. Ramiro si trascinò per tutta la vita il ricordo tenebroso della repressione. Decenni dopo, si ricordava ancora di quei falangisti del primo dopoguerra che rastrellavano le case di Gexto e dei dintorni in cerca di carne da mettere al muro. Ne parlò in alcuni passi dei suoi romanzi; e sono il tema centrale di La higuera, uno dei suoi testi che apprezzo maggiormente.
Ramiro Pinilla impiegava quel tipo di umorismo sotterraneo il cui scopo originario non è provocare le risate, ma conficcare nell’interlocutore, come senza volerlo, un pungiglione di sottile ironia. Era un uomo di significati, più che di preziosismi formali. Ha lasciato detto che scriveva perché parlava poco. Una sorta di compensazione, dunque, che a mio parere non esaurisce le profonde motivazioni della sua scrittura, alla quale non difettano né la testimonianza dell’epoca né la coscienza sociale. Soprattutto nel romanzo, ma anche nei racconti, trovò la forma che meglio si adattava alle sue enormi doti di narratore.
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