«I ricordi vengono, ma non stanno fermi. E, inoltre, alcuni davvero sciocchi esigono attenzione. E ancora non so se nonostante la loro ingenuità abbiano qualche rapporto importante con altri ricordi; o quali significati e immagini si scambino tra loro. Alcuni sembrano protestare contro la selezione che vuole farne l’intelligenza. E allora rispuntano a sorpresa, come per chiedere nuovi significati, o per fare nuovi e fugaci scherzi, o per stravolgere tutto in un altro modo.» Già nella prima pagina di Ai tempi di Clemente Colling Felisberto Hernández enunciava il tema centrale del racconto, la lotta corpo a corpo con la memoria, e presagiva le difficoltà che avrebbe incontrato e le trappole che lo attendevano. La tematica del ricordo è centrale in tutte e tre le nouvelles riunite sotto il titolo dell’ultima, Terra della memoria (rimasta incompiuta), nel volume della Nuova Frontiera empaticamente tradotto di Francesca Lazzarato, come le due precedenti raccolte, Nessuno accendeva le lampade e Le Ortensie. Così il lettore italiano può finalmente disporre di quasi tutta l’opera di Felisberto – data l’enorme diffusione del cognome Hernández, di solito lo si nomina così –, fino a pochi anni fa trascurata da un’editoria forse intimorita dalla sua fama di “scrittore per pochi”, malgrado l’ammirazione professata da Calvino, Callois e Cortázar, che ne fu indubbiamente influenzato.
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Triste, solitario y final (Profilo di Osvaldo Soriano)
«Lei crede a quello che dicono i libri?» «Prima ci credevo. Adesso non lo so più. È facile scrivere.» Aveva trent’anni Osvaldo Soriano quando imbastiva questo dialogo nel capitolo conclusivo di Triste, solitario y final, e in quel romanzo d’esordio, malgrado l’umore malinconico che diventerà uno dei suoi tratti distintivi, c’è tutta la baldanza di uno scrittore pieno di energie, talmente disinvolto da proporsi come uno dei protagonisti della vicenda, accanto ai suoi eroi (o antieroi) Stan Laurel e Philip Marlowe. Era il 1973, e il continente latinoamericano doveva ancora smaltire la colossale sbronza del “realismo magico”, ma in Argentina, dove il magistero cosmopolita di Borges e il realismo sucio di Roberto Arlt avevano eretto una barriera impenetrabile per gli epigoni di García Márquez & C., la critica accademica celebrava piuttosto gli effimeri fasti della metanarrazione, incoronando scrittori come Juan José Saer e Ricardo Piglia. Nello stesso tempo snobbava bellamente Manuel Puig, che aveva già pubblicato Il tradimento di Rita Hayworth e Boquitas pintadas (in italiano Una frase, un rigo appena), dove annullava con gesto sovrano l’artificioso distacco fra la Letteratura e la cultura pop nella quale viviamo immersi e dimostrava, en passant, che la sperimentazione formale può essere messa al servizio dello sviluppo di una narrazione appassionante senza ostacolarne la leggibilità. Sempre nel 1973 Puig dava alle stampe The Buenos Aires Affaires (Fattaccio a Buenos Aires), dove operava una distorsione dei paradigmi del genere poliziesco, un po’ come Soriano in Triste, solitario y final, mentre ritraeva impietosamente il mondo letterario argentino che si apprestava a lasciare. Da notare che in seguito anche Saer e Piglia, riconoscendo la produttività di queste operazioni, avrebbero compiuto le loro personali incursioni nel genere, rispettivamente con La pesquisa (La perquisizione) e Plata quemada (Soldi bruciati), pubblicato l’anno scorso da Guanda.
Con la stessa malevolenza già riservata a Puig, e prima di lui ad Arlt, la critica trattò Soriano, colpevole ai suoi occhi di due peccati capitali – veniva dal giornalismo, oltre tutto dal giornalismo sportivo, e scriveva “romanzi d’azione” usando un “linguaggio cinematografico” –, a cui presto se ne aggiungerà un terzo, ancor più imperdonabile: il successo di pubblico, che finirà per favorire davvero il problematico trasloco sul grande schermo delle sue storie. A quei tempi “scrittura cinematografica” era l’accusa peggiore, la ghigliottina più affilata che potesse piovere sul collo di uno scrittore, e finì per diventare un cliché da usare ogni volta che ci si trovava di fronte a una scrittura vertiginosa. Ma si intuisce: era soltanto la reazione scomposta, quasi un tic nervoso, di chi era restio ad accettare il fatto compiuto dell’avvento del cinema (e poi della tv), che aveva modificato inesorabilmente la percezione della realtà e l’immaginario della nuova generazione di scrittori e dei loro lettori.
Sta di fatto che l’entusiasmo con cui Triste, solitario y final fu accolto in Argentina e le prime traduzioni convinsero Soriano a indirizzare il suo talento con sempre maggior decisione verso la narrativa, senza peraltro abbandonare l’attività giornalistica, di cui amava ogni tanto raccogliere il meglio in volume. I successivi due romanzi però dovette pubblicarli in Spagna, e lui stesso, dopo il blackout imposto dai militari nel 1976, fu costretto all’esilio in Europa, da dove tornerà solo nel 1984. E non poteva essere diversamente, dato che con Mai più pene né oblio e Quartieri d’inverno, invece di sfruttare la formula vincente di Triste, solitario y final, si era impegnato a darci la sua visione della situazione sociale e politica dell’Argentina di quegli anni, sconvolta dalle lotte fra le opposte fazioni e poi dalle raccapriccianti mattanze della Triplice A che avevano aperto la strada all’instaurazione di un regime militare.
A distanza di quattro anni dalla sua morte, due libri usciti di recente (Osvaldo Soriano di Eduardo Montes-Bradley, Sperling & Kupfer, e la ristampa di Ribelli, sognatori e fuggitivi per Einaudi) offrono l’occasione di rivisitare la figura e l’opera del Gordo, il Ciccione, come lo chiamavano gli amici.
Montes-Bradley è un cineasta che ha realizzato un documentario su Soriano; nel libro raccoglie frammenti di numerose interviste con scrittori, giornalisti, amici e compagni di Osvaldo, tra cui Eduardo Galeano, Mempo Giardinelli, Gianni Minà, oltre a tre lettere di Julio Cortázar e una di Adolfo Bioy Casares. Di entrambi questi scrittori Soriano fu amico; con il primo condivise gli ideali politici, gli anni dell’esilio e l’iniziativa della pubblicazione a Parigi della rivista “Sin censura”, mentre verso il secondo, così diverso da lui per formazione e gusti, nutrì sempre grande ammirazione, soprattutto per la capacità di dar vita a personaggi femminili credibili, laddove l’universo letterario di Soriano è fatto soprattutto di amicizie virili. E Bioy Casares lo volle accanto a sé nel 1990 quando ricevette dalle mani del re di Spagna il premio Cervantes. Foto di gruppo: Osvaldo impacciato nel suo smoking d’occasione, come il protagonista di La resa del leone: «Lo smoking gli stava bene e si sentiva guardato e omaggiato dai sorrisi come il giorno della sua prima comunione».
Leggere le testimonianze affettuose dei suoi amici è come scorrere un album di foto: Osvaldo con la maglietta del San Lorenzo, la squadra di calcio di cui era tifoso e nella quale avrebbe voluto giocare se un incidente non lo avesse costretto a scegliere un altro mestiere; circondato dai suoi amati gatti, quelli in carne e ossa e quelli che appaiono immancabilmente nei suoi romanzi, dato che gli portavano fortuna; la passione quasi infantile per il suo Mac; i rapporti conflittuali con l’accademia e gli editori, che trattò sempre con freddezza (pare sia il modo migliore, se è vero che cambiare editore gli fruttò un ingaggio di quasi mezzo milione di dollari); il suo odio-amore per la base popolare peronista e la militanza politica d’indipendente di sinistra; l’attività giornalistica prima dell’esilio, poi in Francia, dove frequentò le redazioni di “Le Monde”, “Libération”, “Le Canard Echainé”, e in Italia, dove fu collaboratore del “Manifesto”, poi di nuovo in patria dove fondò il quotidiano “Página/12”.
Un paio di citazioni. Rodrigo Fresán: “Nella narrativa di Soriano è molto presente il tema della letteratura on the road, che lui rivendicò e in cui non ebbe rivali, perché seppe vedere che l’Argentina è un paese autostrada, e che questa autostrada non porta da nessuna parte”. Martín Caparros: “In Argentina siamo bravissimi a costruire miti. L’Argentina è un paese in cui non funziona praticamente nulla, che non sa esportare praticamente nulla, tranne i miti. Abbiamo creato due o tre delle grandi icone da maglietta della seconda metà del Ventesimo secolo. Tra Evita, il Che e Maradona, non sono molte le figurine che ci mancano per completare l’album”.
È indubbio che questo album di “figurine” affascinò Soriano. Di Evita Perón diceva: “Sentivo che stava dalla nostra parte, che ci difendeva”, al Che dedicò un pezzo (“Quella foto che sconvolse un continente”) che compare in Ribelli, sognatori e fuggitivi, e di Maradona scrisse in termini entusiastici in un articolo raccolto in Futbol. Storie di calcio: “Maradona è così: non è di questo mondo… Sì, Maradona è così: esiste per la gloria di Dio”. Anche su un altro mito argentino, il cantante di tango Carlos Gardel, che pure fa capolino in diversi suoi romanzi, avrebbe voluto scrivere se non fosse morto anzitempo. Questo suo attaccamento alle icone della devozione popolare, l’identificazione con le passioni della gente comune come il calcio o la boxe (“ho fabbricato una specie di filosofia della boxe, eliminando tutti gli aspetti sanguinosi e crudeli”, disse in un’intervista), le dichiarate antipatie – per esempio, John Wayne e Charlie Chaplin, del quale diceva che era un uomo a cui andava sempre tutto male nei film e bene nella vita – e le simpatie – in genere figure di emarginati e loser –, traspaiono dalle sue raccolte di pezzi giornalistici, come Ribelli, sognatori e fuggitivi, Artisti, pazzi, criminali, Pirati, fantasmi e dinosauri, e circolano liberamente nei romanzi. Sono diventati il marchio di uno stile. E hanno fatto scuola, soprattutto da noi; basterà fare il nome di Cacucci.
Mai più pene né oblio, terminato nel 1975 e pubblicato quattro anni dopo, è ambientato a Colonia Vela, paesino immaginario ma perfettamente verosimile della provincia di Buenos Aires che sarà lo scenario anche del successivo Quartieri d’inverno. Soriano scrive un’irresistibile farsa, con toni che vanno dal grottesco al patetico, raccontando i momenti cruciali del conflitto fra gli scalcagnati esponenti delle due fazioni peroniste locali. Poveracci che si affrontano in una sparatoria demenziale e usano un piccolo aereo per la disinfestazione dei campi per scaricare letame sugli avversari. La scrittrice Ana María Shua, nel libro di testimonianze di Montes-Bradley, ricorda così l’effetto che le fece la lettura del libro: “Cominciai a gridare, a chiamare mio marito. ‘Vieni a vedere! C’è da non crederci, guarda cosa sta facendo questo figlio di buona donna, da non crederci!’ Stava raccontando quella che tutti chiamiamo ‘la nostra storia recente’; stava raccontando la lotta tra la destra e la sinistra peronista come se fosse un film western”.
La fortuna di questo romanzo all’estero è quasi un miracolo, data la difficoltà di cogliere appieno tutte le allusioni e persino l’atmosfera in cui si sviluppa la vicenda, e forse si spiega proprio con l’abilità narrativa di Soriano, che gli varrà da parte di Juan Forn la definizione “l’equivalente letterario di un Buster Keaton combinato con Salgari”: ritmo mozzafiato, linguaggio secco, rapide notazioni ironiche.
Per molti comunque, compreso chi scrive, il suo capolavoro è Quartieri d’inverno, che uscì nel 1981 e fu tempestivamente tradotto in italiano. I due protagonisti del romanzo sono tra i personaggi più vibranti creati da Soriano: Andrés Galván, un cantante di tango emulo poco convinto di Gardel, e Tony Rocha, un pugile sbevazzone e un po’ suonato. S’incontrano nella plumbea stazione ferroviaria di Colonia Vela perché ingaggiati dai militari per una festa paesana e dopo i primi inevitabili screzi finiranno per solidarizzare e per condividere fraternamente disavventure e destino. Galván non ha alcuna simpatia per il regime, e ha accettato solo per bisogno di soldi, ma si rende conto di essersi cacciato in un pasticcio quando gli mostrano un’antipatica scritta su un muro: “Andrés Galvan cantante per gli assassini”. Rifiuta un autografo a un soldato gradasso e da quel momento iniziano i guai: Rocha si schiera dalla sua parte, ma viene colpito a una mano – “Vediamo come lavori di sinistro adesso” – e l’esibizione canora è sospesa. In un crescendo di violenze (i militari uccidono il barbone del paese e danno la caccia al cantante) interrotte da lampi di tenerezza (la love story del pugile con la figlia del dottore), si arriva all’incontro sul ring e all’amara sconfitta del generoso Rocha, cui Galván fa da secondo e poi da infermiere, fino a caricarlo tristemente su un treno per portarselo via. Perdenti, è vero, ma non di quelli che gettano la spugna.
Il microcosmo di Colonia Vela stavolta è lo sfondo di un altro scontro, da cui è uscita trionfante una dittatura sanguinaria, e il clima del periodo è reso in modo estremamente sintetico e allusivo nella scena clou dell’incontro pugilistico, raccontato da Soriano con la sapienza che gli viene dalla conoscenza della materia, mentre l’intera vicenda è pervasa dalla profonda carica di empatia che lo unisce ai suoi due protagonisti.
Con La resa del leone, sorta di omaggio a Graham Greene, il Gordo ha creato un altro personaggio indimenticabile, il console Bertoldi, rappresentante argentino in uno sperduto e improbabile paese africano, aggiungendo un altro tassello al puzzle della sua paziente ricostruzione della storia patria. I militari argentini scatenano l’assurda guerra contro l’Inghilterra per il possesso delle isole Malvinas/Falkland e le conseguenze si fanno sentire fino in Africa, dove Bertoldi, che è l’amante della moglie dell’ambasciatore britannico (piccola rivincita del macho latinoamericano), in un sussulto di nazionalismo che è più che altro una rivendicazione di dignità personale, scatena la sua piccola guerra privata contro gli inglesi. Siamo ben installati nella parodia, e sono lì a confermarlo sia la sequela di equivoci e di gag sia la coorte degli strampalati personaggi che circondano il console: un leader rivoluzionario nero che indossa abiti di Yves Saint-Laurent, un bombarolo irlandese che incita alla rivolta un villaggio di africani esterrefatti – “Dio vi benedica, compagni, vinceremo!” –, un emblematico profugo argentino espulso a ripetizione da vari paesi, ecc.
Il registro parodistico sarà ripreso in modo ancor più marcato in L’occhio della patria, del 1992, che fa il verso alle spy-stories. Julio Carré, agente segreto argentino – nessuno rida: assicurano che c’è effettivamente la sua tomba nel cimitero parigino di Père Lachaise –, dopo essere stato sottoposto a chirurgia plastica e aver assistito alla messinscena del proprio funerale, è incaricato di scortare la mummia-robot di uno dei “padri della patria” (tema che appassionò Soriano negli ultimi anni di vita) in una missione di cui non conosce lo scopo, senza potersi fidare di nessuno. Il muro di Berlino è crollato e il caos che ne consegue sconvolge anche il mondo delle spie, ne nascono crisi d’identità di cui la plastica facciale del protagonista e il proliferare di maschere per tutto il romanzo sono scoperte metafore. “A Carré sarebbe piaciuto entrare di colpo con tutti i suoi: Colt il Giustiziere, Kit Carson, Corto Maltese e gli altri. Ma adesso lavoravano per Disney, timbravano il cartellino e sparavano cartucce a salve.” Non è il romanzo più riuscito di Soriano, e nemmeno il precedente,Un’ombra ben presto sarai, del 1990, peraltro pregevole nella ricostruzione di atmosfere on the road nella provincia argentina.
La sua opera della maturità è l’ultima che ci ha lasciato, L’ora senz’ombra, con cui ha dimostrato anche ai più riottosi che non era solo lo scrittore di una stagione e che aveva ancora parecchio da dire. Anche L’ora senz’ombra è imperniato su un viaggio, a bordo di una Torino scassata, per raccogliere il materiale per una Guida alle passioni argentine. Il viaggio però, soprattutto interiore, diventa un pellegrinaggio alla ricerca del padre fuggito moribondo da un ospedale. La tematica – anomala per Soriano, certo distante dall’armamentario psicanalitico – non deve stupire, se si pensa che Buenos Aires è la città con la più alta densità di strizzacervelli del mondo. In ogni caso, come è stato scritto, il libro è “un banchetto per freudiani”. È anche la resa dei conti con l’accademia, che amava il “romanzo nel romanzo”, e Soriano glielo scrive, con la materia dei suoi fantasmi, disseminando il testo di citazioni degli autori che amava e conferendo maggior profondità a personaggi e situazioni, ma senza perdere la fluidità della narrazione, senza rinunciare all’aneddoto illuminante.
Se n’è andato troppo presto, ma ci ha lasciato il suo testamento nella chiusura di un pezzo di Pirati, fantasmi, dinosauri: “Non abbiate pietà di me: la memoria, così vorace e violenta, è una materia squisita”.
(Pubblicato su Pulp n. 33, settembre-ottobre 2001 e poi sul blog di Sur.)
Lo “scivolone” di Cortázar
Dopo una lunga assenza è tornato in libreria, nella nuova traduzione di Ilide Carmignani, L’inseguitore di Julio Cortázar, riproposto da Sur con le illustrazioni di uno dei maestri del fumetto argentino, José Muñoz. Il racconto fu pubblicato nel 1959 nella raccolta Las armas secretas, e sotto il nome del protagonista, Johnny Carter, è facile riconoscere la figura del leggendario sassofonista Charlie Parker, morto nel 1955 a soli trentacinque anni, fondamentalmente per abuso di alcol ed eroina.
E qui abbiamo un problema.
Perché nel racconto, come viene ribadito più volte, la “droga” che assume Johnny Carter non è l’eroina, termine che non compare mai, bensì… la marihuana.
Leggiamo: «Johnny sta delirando e ha in corpo abbastanza marihuana da far impazzire dieci persone». E ancora, sempre più stupefatti: «fantasmi della marijuana, in fin dei conti, che scompaiono con una cura di disintossicazione». In un crescendo che sembra destinato a non finire mai: «Johnny suonava svogliato con l’ansia di scappare (a drogarsi di nuovo, aveva detto il tecnico del suono fuori di sé dalla rabbia), e quando l’avevo visto uscire barcollando con la faccia cinerea, mi ero chiesto se sarebbe durato ancora molto». Infatti, il macabro presagio viene ripreso poco dopo: «Johnny non resisterà ancora a lungo in questo stato. La droga e la miseria non vanno d’accordo».
(Oddio, la marihuana porta dritti alla schizofrenia? Al manicomio? Uccide? Ci si può salvare solo con una bella cura di disintossicazione? Tutti a Patrignano? E nessuno se n’era mai reso conto, ignorando i paterni avvertimenti che ci venivano da Fini, Giovanardi, Casini e altri probi viri…)
Il gusano è diventato farfalla (Profilo di Guillermo Cabrera Infante)
Il suo nome non figura nei due volumi del Dizionario della letteratura cubana dell’Accademia delle scienze di Cuba pubblicati negli anni ’80, quando era già un esponente di punta, nonché la pecora nera, del boom della letteratura latinoamericana dei ’60. E «Granma», l’impettito quotidiano del partito comunista, non si è nemmeno preso la briga d’informare della sua morte, avvenuta il 21 febbraio in un ospedale londinese. Soltanto il sito web di «La Jiribilla» ne ha dato notizia – la rete è precauzionalmente irraggiungibile per la stragrande maggioranza dei cubani –, lamentando che i suoi testi giornalistici e i suoi saggi fossero «contaminati dall’ossessione fanatica in cui si era convertita la sua posizione politica verso la rivoluzione cubana», ma riconoscendo a denti stretti che «le cose migliori della sua opera appartengono al patrimonio letterario della nazione cubana».
E così, adesso che il gusano (verme, l’insulto canonico per i dissidenti, pardon, i «controrivoluzionari al servizio dell’imperialismo yankee») è diventato farfalla, il direttore di una casa editrice di Stato ci rassicura: non esiste censura nei suoi confronti, e si faranno nuovi tentativi per ottenere dagli eredi il permesso di pubblicare le sue opere a Cuba. Auguri. Nel frattempo continueranno a circolare clandestinamente, a essere scambiate per qualche litro di latte, ricopiate da lettori con la vocazione alla galera, come samizdat nella Siberia dei tropici, nell’Albania dei Caraibi, secondo alcune amare definizioni dell’isola da lui coniate. La musica cambia se si leggono i «coccodrilli» che gli hanno dedicato scrittori e uomini di cultura cubani che vivono in esilio (come Zoe Valdés), ma anche sull’isola (come Leonardo Padura Fuentes). Perché, al di là delle antipatie politico-ideologiche e personali che suscitava così facilmente – pronto com’era a giocarsi un’amicizia pur di non rinunciare a una battuta feroce –, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Guillermo Cabrera Infante ha lasciato un’opera letteraria singolare e importante, destinata a durare.
Juan Damonte, Ciao papà – Nota del curatore
La prima edizione di Chau papá fu pubblicata in Messico da Martínez Roca nel 1995 in una collana diretta da Paco Ignacio Taibo II, che alla morte dell’autore ha dichiarato: “Il romanzo mi capitò fra le mani e mi sembrò meraviglioso… È scritto in uno stile estremamente personale che di rado ho ritrovato in un autore, gli avvenimenti si succedono a una velocità incredibile. Juan Damonte era un narratore vertiginoso e dotato di grande immaginazione”.
Nel 1996, nell’ambito dell’annuale Semana Negra di Gijón, nelle Asturie, a Chau papá fu assegnato il Premio Internacional Hammett per il migliore noir in lingua spagnola e venne pubblicato anche in Spagna da Virus. Nel 1997 vi fu l’edizione francese nella prestigiosa Série Noire di Gallimard, e più recentemente, nel 2007, la traduzione in tedesco per la casa editrice svizzera Lateinamerikaverlag.