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Julio Ramón Ribeyro, I genietti della domenica

31 dicembre 1951: in uno studio legale di Lima, Ludo Totem lancia un urlo straziante, dopodiché straccia un’istanza di pignoramento e scrive la sua lettera di dimissioni. Con i soldi della liquidazione si appresta a festeggiare con gli amici l’inizio dell’anno nuovo e forse di una nuova vita. La prospettiva è quella di un’orgia, ma rimorchiano solo due meticce, una delle quali oltretutto è una specie di nana con le mutande sporche. Mentre scoppiano i mortaretti che annunciano la mezzanotte, Ludo vomita l’intruglio di pisco e Cinzano che ha ingurgitato.
Così inizia I genietti della domenica di Julio Ramón Ribeyro (La Nuova Frontiera, tr. di N. Santoni), romanzo dello scrittore peruviano unanimemente considerato dalla critica fra i migliori autori latinoamericani di racconti. Ma fu proprio la sua predilezione per la narrativa breve a impedirgli di figurare nella rosa dei nomi del boom degli anni Sessanta e di unirsi al manipolo di scrittori che sarebbero riusciti a vivere del mestiere.

Malgrado le raccomandazioni di Vargas Llosa e Bryce Echenique, infatti, Carlos Barral, l’editore spagnolo che mise per primo le mani su quella miniera d’oro, si rifiutava di pubblicare racconti.
Del resto Ribeyro, personaggio schivo, refrattario alle interviste e forse incerto sul valore della sua narrativa, è complice del silenzio sceso per molti anni sulla sua opera. “Discreto, timido, laborioso, onesto, esemplare, marginale, intimista, lucido: ecco alcuni degli aggettivi che mi sono stati attribuiti dai critici. Nessuno mi ha mai chiamato grande scrittore. Perché sicuramente non lo sono.” Si definiva uno “scrittore di frammenti”, e in effetti tutti i capitoli di I genietti della domenica, dal finale aperto o chiuso, presentano una struttura autonoma e sgranano una serie di episodi nei quali, oltre agli amici di bevute con i quali il protagonista condivide un progetto di rivista letteraria, sfilano i quartieri e alcuni luoghi emblematici della città di Lima, investita in quegli anni da vertiginosi processi di inurbamento e modernizzazione.
Ludo frequenta l’Università cattolica, privata ed elitaria, ma non ha nulla dell’arrampicatore sociale e al matrimonio di una zia che frequenta la bella società finisce per mangiare in cucina insieme alla servitù. La sua famiglia è decaduta, tanto da dover affittare delle stanze, il fratello passa le giornate in casa aspettando gli amici per giocare a scacchi, e Ludo deve cercarsi un altro lavoro. Ci prova battendo le strade alla ricerca di clienti per un avvocato, e sono le pagine in cui fanno capolino suggestioni kafkiane: “…burocrati incalliti che non gli rispondevano, sottocapi in pantofole, occhiali sparpagliati ovunque, calvizie, maniche rimboccate, dattilografi con la visiera, code, sportelli di accoglienza, carte, ancora carte e, in ogni dove, onnipresente come Dio, ma visibile, il moto del Ministero delle Finanze: “Pagare e solo dopo reclamare”. (Ribeyro condividerà con Kafka il destino dell’incomprensione degli aspetti umoristici della propria opera: “c’è un aspetto dei miei racconti, dei miei libri, che non viene quasi mai colto dai critici, ed è lo humour. Tutti mi considerano uno scrittore cupo, scettico, tragico, cioè pessimista, ma io credo che ci siano cose piuttosto divertenti. Io mi diverto molto quando scrivo”. Altri nomi a cui è stato accostato: Camus e Onetti.)
Ludo tenta allora la vendita porta a porta di un insetticida, e insieme all’inseparabile Pirulo in un momento di disperazione visita il Colegio Mariano, dove aveva studiato, per scoprire che non è cambiato niente: il direttore non ha perso la ripugnante abitudine di fare palline di caccole per spararle contro l’interlocutore, e la sua sottana è sempre cosparsa di forfora.
Ma la discesa di Ludo nei bassifondi di Lima, la breve love-story con una prostituta, gli spiacevoli incontri con il magnaccia, e l’apparizione di una vecchia Colt ritrovata in un cassetto fanno presagire che I genietti della domenica non è solo il racconto picaresco, spassoso, in gran parte autobiografico, delle avventure di un giovane bohémien senza futuro. L’accelerazione impressa da alcuni avvenimenti drammatici – l’uccisione del padre di Pirulo, il pestaggio di un marinaio americano, la rovina economica della famiglia, convinta da un cognato a disastrosi investimenti – fa dei Genietti della domenica (un altro titolo pensato dall’autore: I giorni avariati) un romanzo a tutto tondo, a cui non mancano né elementi di analisi sociale né spessore psicologico dei personaggi né una trama solida né un brioso ritmo narrativo. E la scrittura limpida di Ribeyro, lo stile sapiente e apparentemente neutro, accompagnando il punto di vista scettico e disincantato, ma mai cinico, del suo alter ego Ludo, gli consentono di disseminare il testo di frasi indimenticabili buttate lì con nonchalance, come quando scrive: «Che hanno di diverso un banchiere e un gangster? O un ispettore e un borsaiolo? Il confine è molto labile. È risaputo. Io preferisco i gangster e i borsaioli. Sono più puri, procedono con maggiore franchezza: infrangono la legge, gli altri, più semplicemente, la dettano».

 

 (Pubblicato su Carmilla, maggio 2011)

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Visconte Lascano Tegui, Un dandy della pampa

«Sono estremamente imbarazzato a parlare di questo libro, che forse non sarà un capolavoro (non so bene cosa sia un capolavoro e ormai diffido di questo genere di opere), ma è sicuramente una delle cose più originali, più singolari che abbia mai letto. In cosa consiste la sua originalità? Io sento che in queste pagine c’è qualcosa di inafferrabile, che sfugge a qualsiasi definizione, a qualsiasi spiegazione». Così scriveva Francis de Miomandre nel 1930, presentando la sua traduzione dell’edizione francese di De la elegancia mientras se duerme, del Visconte di Lascano Tegui.1 L’elogio non è di maniera, e vale la pena ricordare che Miomandre – illustre ispanista d’Oltralpe, autore a sua volta di opere letterarie raffinatissime e singolari, oltre che di una miriade di articoli giornalistici – ebbe il merito di scoprire e promuovere talenti come Claudel, Gide, Valéry, Proust, e di difendere Cèline dalle accuse di turpiloquio.

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César Vallejo Amara antropologia dello sfruttamento, tra furore e utopia

«Morirò a Parigi con la pioggia / in un giorno del quale ho già il ricordo». Così scriveva il peruviano César Vallejo (1892-1938) in «Pietra nera su una pietra bianca», nella raccolta Poemi umani. Roberto Bolaño, in uno dei suoi romanzi più cupi, Monsieur Pain, ha raccontato a modo suo la morte del poeta, che avvenne in effetti a Parigi, di malattia e di stenti, attribuendola a un misterioso singhiozzo e a una cospirazione fascista.

Nel 2008 Gorée ha pubblicato l’opera poetica di Vallejo in due preziosi volumi curati da Roberto Paoli (1930-2000), uno dei suoi più importanti studiosi a livello internazionale. Con la pubblicazione lo scorso anno del racconto Favola selvaggia nella collana gli Eccentrici di Arcoiris, e ora del romanzoTungsteno per SUR (trad. di Francesco Verde), il lettore italiano può finalmente conoscere anche parte dei suoi scritti in prosa.

Nato in un paese della cordigliera andina, ultimo degli undici figli di una coppia formata da una sorta di «avvocato del popolo» di origini galiziane e da una donna di ascendenze indigene, il meticcio Vallejo è uno dei più grandi poeti del Novecento, e a comprovarlo bastano le raccolte Gli araldi neri eTrilce, insieme a quelle postume: Poemi umani e Spagna, allontana da me questo calice, in difesa della Repubblica spagnola. Dopo diversi tentativi di laurearsi in lettere, sempre interrotti per le difficoltà economiche e intervallati da varie esperienze lavorative – impiegato in miniera, insegnante, aiuto contabile in uno zuccherificio – che gli fanno toccare con mano la realtà dello sfruttamento, Vallejo si trasferisce a Trujillo e poi nella capitale Lima. Qui entra in contatto con l’intellettualità cittadina e stringe amicizia con José Carlos Mariátegui, il fondatore del Partito socialista peruviano. Nel 1918, anno in cui muore la madre, figura centrale nella sua vita e nella sua poetica, pubblica Gli araldi neri, una raccolta ancora caratterizzata dagli stilemi dell’estetica modernista ma nella quale affiorano già elementi di rottura di quella tradizione ormai esausta. Due anni dopo, ingiustamente accusato di aver aizzato un incendio e un saccheggio, viene incarcerato per quattro mesi; darà conto di questa triste esperienza nel volume di prose avanguardistiche Escalas mielografadas.

Ma è nel 1922, con la pubblicazione di Trilce, che la sua ispirazione si rivela in tutta la sua potenza e originalità. In una intervista concessa a un quotidiano madrileno nel 1931, alla domanda sul significato della parola che dava il titolo alla sua raccolta poetica, risponderà: «Ah, be’, Trilce non significa niente. Non trovavo nessuna parola degna di diventare un titolo, e allora l’ho inventata: Trilce. Non è una bella parola?». Inevitabile il confronto con «dada» e il dadaismo, anche se il rapporto di Vallejo con le avanguardie latinoamericane ed europee non fu lineare né scontato. Il libro venne accolto con molte riserve e con un certo stupore; del resto, si tratta di poesie piuttosto ermetiche, per le ardite scelte lessicali e la violenza cui è sottoposta la sintassi. Come ha scritto Roberto Paoli: «Fuori dalle coordinate degli affetti, il mondo si fa presente a Vallejo come caos e assurdo. È in questa zona di rifiuto o, peggio ancora, di enigmaticità inviolabile che il poeta ha adottato più largamente i modi dell’avanguardia, riducendone tuttavia il valore ludico e, anzi, accentuandone la carica rivoluzionaria, giacché, in questa particolare adozione, la tecnica avanguardistica viene assunta come corrispettivo formale di una visione scardinata e brutale, come il solo veicolo atto a rappresentare un mondo frantumato e capovolto, insomma come linguaggio della follia del reale».

Infatti Vallejo si distanzia dalle avanguardie europee su punti essenziali, che lo avvicinano piuttosto a un’altra figura di intellettuale attivo a Parigi in quegli anni: Antonin Artaud, e non solo per la dichiarata volontà di scrivere «per gli analfabeti», per l’espressività e la crudezza del linguaggio, ma per il peso che assumono nelle loro opere la sofferenza esistenziale e l’insurrezione del corpo e delle sue pulsioni, il rifiuto della sensualità – «Godere in ogni occasione e attraverso tutti i pori, ecco il centro delle loro ossessioni», scrive Artaud nel 1927 nel suo libello À la grande nuit ou le bluff surréaliste –, dei giochi linguistici fini a sé stessi e del vano ribellismo parolaio. «La ribellione non è possibile senza l’innocenza. Si ribellano soltanto i bambini e gli angeli», scrive Vallejo, che fa i conti con Breton e amici in una cronaca giornalistica del 1930 intitolata «Autopsia del surrealismo», dove sviluppa una critica delle scuole letterarie dei primi decenni del Novecento (espressionismo, dadaismo, surrealismo, futurismo…): «Mai il pensiero sociale si è frazionato in tante e tanto effimere formule. Mai ha sperimentato un gusto altrettanto frenetico e una simile necessità di stereotiparsi in ricette e cliché, come se avesse paura della propria libertà o come se non potesse prodursi nella propria unità organica». E stigmatizza il «vizio del cenacolo», così come Artaud aveva dichiarato: «Il surrealismo è morto per il settarismo imbecille dei suoi adepti».

Diversamente da Artaud, Vallejo negli anni Trenta aderì al marxismo, un marxismo sui generis, beninteso, vissuto soprattutto come anelito all’uguaglianza, alla giustizia sociale e alla solidarietà, che non reciderà le sue radici cristiane e umanistiche, né lo spingerà ad abdicare alla libertà artistica: «Come uomo, posso simpatizzare e lavorare per la Rivoluzione, ma come artista non è nelle mani di nessuno, nemmeno nelle mie, controllare la portata politica che può occultarsi nelle mie poesie». Di questa adesione al marxismo è frutto il romanzo indigenista-proletario Tungsteno, pubblicato a Madrid nel 1931. Se in Favola selvaggia, che rientra in qualche misura nella letteratura fantastica e racconta un dramma della gelosia e della follia incentrato sul tema del «doppio demoniaco», Vallejo offriva uno squarcio delle ancestrali superstizioni del mondo rurale andino, in Tungsteno elabora una drammatica visione della lotta di classe che oppone i padroni nordamericani delle miniere e i loro scagnozzi locali ai peones e agli indigeni soras, «arruolati» con la violenza e costretti al lavoro forzato, e traccia una differenza antropologica fra la visione del mondo di questi ultimi e quella dei loro aguzzini: «Senza far calcoli, né preoccupandosi per il risultato economico del loro operato, parevano vivere la vita come un gioco, in maniera spontanea e generosa. […] Il criterio economico dei soras era molto semplice: poter lavorare, come e dove gli era concesso, per assicurarsi il minimo indispensabile alla sopravvivenza. Il resto non gli importava». (I soras sono cronopios ante litteram, brutalizzati da una caterva di famas che si approfittano bestialmente del loro candore: funzionari statali, giudici, poliziotti, commercianti…) Come scrive Goffredo Fofi nella prefazione: «In una stessa ondata di furore e utopia, somiglia a molti altri romanzi di quegli anni che raccontarono disperazione e rivolta degli oppressi in più parti del mondo, e ha qualcosa in comune con i grandi romanzi della fede socialista o comunista». Ma il carattere didascalico e di propaganda, che ne fanno in qualche misura un’opera datata, sono ampiamente riscattati, oltre che dalla potenza delle scene – terribile quella dello stupro di gruppo di una giovane india ridotta in schiavitù –, da una partecipazione non esteriore di Vallejo al dramma degli indios. Come scrive ancora Fofi: «È la partecipazione diretta alla condizione e alla cultura india a maturare la vocazione di Vallejo, e a seguirlo nell’esilio europeo, parigino, come una piaga e una corona». E l’ostracismo subito per le sue posizioni politiche, che lo costringerà a una vita grama, vissuta in dignitosa povertà, non lo farà mai venire meno a uno dei suoi princìpi: «Se c’è un’attività di cui non si deve fare una professione, questa è l’arte».

 

(Pubblicato su Alias il 18 gennaio 2015 e poi sul blog di Sur.)

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José Pablo Feinmann, L’esercito di cenere

Il tenente Quesada, uomo d’armi senza guerre, si annoia e uccide in un duello aristocratico, facendosi molti nemici. Costretto a lasciare Buenos Aires e accompagnato dal cercatore di tracce Baigorria, raggiunge uno sperduto forte sul limitare del deserto: deve consegnare un messaggio al colonnello che lo comanda e mettersi ai suoi ordini. Il colonnello Andrade è un eroe delle guerre d’Indipendenza, ma è stato confinato lontano dal teatro degli eventi: da un pezzo sono finiti i malones, le improvvise e devastanti incursioni degli indios querandíes. Come Quesada, vorrebbe tornare al fronte, versare del sangue. «La guerra forse è solo una femmina assillante, a volte letale, ma sempre appetibile».

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L’inconscio è abitato dai romanzi d’appendice (Profilo di Manuel Puig)

 

domenica 22 luglio 1990, ore 20, buenos aires

 

Da un notiziario radiofonico: «Secondo una notizia dell’ultima ora, è morto in Messico, dov’era tornato a vivere da un anno, uno scrittore argentino il cui nome qui non dice niente: Manuel Puig».

– Quando se n’era andato dall’Argentina?

– Nel 1973, quando The Buenos Aires affaires, il suo terzo romanzo, fu ritirato dalla circolazione dalla censura peronista e lui ricevette minacce telefoniche.

(Avevo deciso di lasciare il mio paese per un po’, ma poi la situazione è peggiorata e per otto anni non sono potuto tornare; adesso non so, qualcosa mi dice che sarà meglio non tornare più. Probabilmente c’è stata tanta resistenza verso quel romanzo a causa della sua insistenza sul dramma della solitudine sessuale, tema che direttamente o indirettamente ci riguarda tutti, e che disturba.)

– Per me Il tradimento di Rita Hayworth, il suo primo libro, è anche il suo capolavoro e uno dei grandi romanzi della letteratura argentina.

– Di’ pure che è uno dei più originali della letteratura moderna. Lì inventa un mondo e un nuovo modo di narrare.

– L’originalità di Puig sta nei materiali utilizzati, tipi e stereotipi della cultura popolare: radiodrammi e telenovelas, il melodramma feroce dei boleri e dei tanghi, le rubriche di gossip, le notizie della stampa scandalistica, e soprattutto la pseudorealtà creata da situazioni, personaggi e sogni dei film.

– Tutto questo, però, era già stato trattato in mille modi diversi…

– Sì, ma sempre come un elemento in più di una realtà umana complessa. L’innovazione nella sua opera è che la versione artificiale e caricaturale della vita elimina e sostituisce l’altra dimensione per diventare l’unica verità.

(Inconsciamente decisi che quello che vedevo al cinema era la realtà, che il mondo era così, perché lo capivo e mi ci sentivo a mio agio. In quell’ambiente c’era giustizia. Anche lì le donne erano sottomesse, ma alla fine sulla loro tomba portavano un grosso mazzo di fiori; qualcuno premiava tanta pazienza e stupidità…)

– È tutto fatto di dialoghi. All’epoca una cosa del genere non usava. La sua musa è stata una dea della cultura popolare.

– E il titolo? Oggi perfino Stephen King ha scritto un romanzetto dove compare Rita Haywoth nel titolo, ma allora era impensabile.

– Scrisse una lettera all’attrice per chiederle l’autorizzazione a utilizzare il suo nome, dove le riassumeva la trama.

(La storia narrata nel romanzo accade in Argentina, dal 1933 al 1948, e riguarda un bambino di un villaggio della pampa dove l’unico contatto con il mondo è la fiction dei film. Il bambino comincia a vivere solo quando si spengono le luci in sala e compaiono i nomi delle star sullo schermo. E quelle star entrano a far parte dei suoi conflitti interiori.)

– Lui ha sempre ammesso che contiene abbondante materiale biografico.

(Oui. Toto c’est moi.)

– Sapevi che è nato da un copione andato a monte, scritto a tempo perso quando lavorava negli uffici dell’Air France all’areoporto La Guardia di New York?

(Avevo vissuto negli Usa dal ‘63 al ‘67, nel periodo del movimento hippy, che era stato una cosa molto grossa e importante, e vederlo morire era uno spettacolo che non potevo sopportare.)

 

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