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Kodama vs Katchadjian

Il 23 settembre è stata pubblicata una nota di Ignacio Echevarria – potete leggerla qui: http://m.elcultural.com/revista/letras/Roberto-Bolano-borrado/38556 – sulla gestione dei diritti dell’opera letteraria dello scrittore cileno, nelle mani della vedova. La polemica mi ha ricordato un altro caso in cui la capricciosa  volontà dell’esecutrice testamentaria sembra prevalere su qualsiasi altra considerazione. Mi riferisco a María Kodama, vedova di Borges. Credo se ne possa trarre una sola conclusione: per gli scrittori, meglio non lasciare vedove…

Ripropongo una nota pubblicata all’inizio dell’estate scorsa a proposito di una denuncia sollevata da Kodama nei confronti di uno scrittore argentino. Per quanto ne so, il caso giudiziario non è ancora risolto, ma il succo della questione – l’accusa di plagio letterario – rimane lo stesso.

 

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Macondo, il paese delle allodole

(A proposito di Tradurre un continente)

 

Seconda parte

La seconda parte del volume (“Altre rotte”) si apre con un intervento di Antonio Melis – sulle traduzioni italiane di Arguedas – che segnala anzitutto un punto dolente: lo scadimento delle recensioni editoriali sulla stampa, «il più delle volte ridotte a resoconti asettici o addirittura a spot pubblicitari appena mascherati», che sempre più spesso omettono bellamente il nome del traduttore, concorrendo in modo più o meno involontario a un deprezzamento generale della professione e, indirettamente, a una profonda diseducazione del lettore. Poi Melis passa a esaminare le difficoltà che presenta la traduzione dei romanzi andini, legate alla profonda diversità dei contesti culturali. Difficoltà che purtroppo non sono state superate, come dimostrano i numerosi esempi addotti, fra cui: il termine corredor, che ne I fiumi profondi di Arguedas è stato tradotto da Umberto Bonetti con “corridoio”, laddove invece, in Perù, indica i porticati delle case; o amaru, tradotto semplicemente come “serpente” quando si tratta di un animale con connotazioni mitiche; la frase “Ho visto San Giorgio combattere la tarantola” risulta francamente surreale e incomprensibile, se non si specifica che nell’originale San Jorge è il nome di un insetto particolarmente aggressivo; e del tutto fuorviante risulta la traduzione di cerro con “colle”, laddove si parla di montagne di 4-5000 metri. Anche in questo caso, dunque, il giudizio non è certo assolutorio: «Di fronte alla irriducibile diversità del mondo andino, il traduttore si propone di avvicinarlo al lettore italiano, ma pensa di farlo privandolo delle sue connotazioni ambientali, umane e linguistiche specifiche».

 

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Macondo, il paese delle allodole

(A proposito di Tradurre un continente)

Nel 2013 Sellerio ha pubblicato un volume di grande interesse  per tutti i traduttori, gli ispanisti e in generale per gli appassionati di letteratura latinoamericana, Tradurre un continente. La narrativa ispanoamericana nelle traduzioni italiane, a cura di Francesco Fava.

Riporto qui, in due parti (la seconda parte sarà disponibile mercoledì), la recensione che pubblicai a suo tempo sul blog delle edizioni Sur.

 

cienanosChe cosa “ci è arrivato” di scrittori come García Márquez, Borges, Cortázar, Arguedas, Rulfo e altri appartenenti al cosiddetto boom della letteratura latinoamericana degli anni Sessanta e Settanta attraverso le traduzioni italiane? E cosa si è perso per strada? È utile e opportuno, a distanza di quasi cinquant’anni dalla pubblicazione delle prime traduzioni, fornire ai lettori italiani versioni più attendibili? Nell’introduzione del curatore si affronta di petto il problema: «… nella traduzione italiana di Cien años de soledad, la “ciudad de los espejos (o los espejismos)” si trasforma in “una città degli specchi (o degli specchietti)” [laddove espejismos significa invece “miraggi”; ndr]. Una banale svista, come ne capitano a ogni traduttore e in ogni traduzione. Ma anche molto di più, sul piano degli effetti per chi legge. Mentre gli evocativi miraggi di García Márquez spariscono dall’orizzonte ottico del lettore italiano ancor prima di essere affrontati, si attiva imprevista una risonanza del tutto diversa: gli specchietti e le altre cianfrusaglie che i primi conquistadores rifilavano agli indigeni americani in cambio di pietre preziose e delle altre “meraviglie” del nuovo continente… E che nello scambio lessicale di una traduzione rischi di perpetuarsi quell’originario commercio ingannevole è un’eventualità – come si vede – sempre in agguato.»

L’annotazione di Francesco Fava – nel saggio “La frontiera mobile dell’esotismo” – compendia sinteticamente i due versanti su cui si sviluppano le riflessioni di tutti gli autori dei vari saggi raccolti nel volume – ispanisti di chiara fama –, pur nella diversità degli approcci: la discussione critica delle traduzioni italiane della narrativa ispanoamericana e la ricezione nel nostro paese dell’immaginario veicolato da questa letteratura.

 

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Nicanor Parra, l’antipoeta

(un omaggio ai suoi 102 anni)

 

Alla domanda se voleva essere il miglior poeta del Cile, Nicanor Parra rispose con la sua proverbiale ironia che si accontentava di essere il miglior poeta di Isla Negra, località dove viveva anche Pablo Neruda. E non fece mai mistero del fatto che: «Neruda fu sempre un problema per me. Una sfida, un ostacolo che incontravo sulla mia strada». Così affrontò la sfida sul piano della poetica creando l’anti-poesia, ovvero la sovversione delle pretese totalizzanti del Vate. Niente di più lontano infatti dal tono sacerdotale di Neruda, dalle sue metafore ampollose e immaginifiche, che il sommesso chiacchiericcio dell’uomo comune, impantanato in banali situazioni quotidiane, che Parra riproduce nei suoi versi. E se Neruda si ispirò a Whitman per il suo Canto general, Parra influenzò Ginsberg e Ferlinghetti, che negli anni ’60 tradussero e pubblicarono i suoi versi negli Usa.

Pur proclamando in varie occasioni rispetto e persino un certo affetto per la vaca sagrada delle lettere cilene, Nicanor non si negò mai il piacere di scherzare sul suo nome (cioè sulla sua fama). Come quando dichiarò allo scrittore Carlos Franz: «Avrai notato che sono l’unico poeta cileno senza pseudonimo (allusione a Neruda, Mistral, De Rokha e Vicente Huidobro). Il fatto è che un antipoeta non può inventarsi uno pseudonimo. Ha bisogno di un nome reale che sia vacante, per occuparlo. Capisci? Alla fine l’ho trovato: Neftalí Reyes. Il prossimo libro lo firmerò come Neftalí Reyes. E sotto, fra parentesi e cancellato: Nicanor Parra.» Ora, Neftalí Reyes è il vero nome di Neruda.

E chissà come avrà preso «Pablito» il discorso in suo onore pronunciato nel 1962, dove Nicanor fissa in modo incontrovertibile la differenza tra sé – «l’antipoeta che viene considerato persona non grata» – e Neruda, tra il «francotiratore» e il «poeta soldato che non esce mai senza il suo mitra».

Mitra in pugno, Neruda si conquistò il Nobel per la letteratura, laddove Parra più modestamente rivendicava per sé quello della lettura: «Il Nobel della Lettura dovrebbero darlo a me / che sono il lettore ideale / e leggo tutto quello che mi capita. / Leggo i nomi delle strade / e le insegne luminose / e i muri dei bagni / e le nuove liste di prezzi».

 

(Pubblicato su Blow-up)

 

Per chi legge lo spagnolo, ecco un sito a lui dedicato:
www.nicanorparra.uchile.cl/

In italiano si possono leggere alcune sue poesie qui:
archiviobolano.it/bol_autcit_nicanorparra.html

e qui:
paginecheamo.wordpress.com/category/nicanor-parra/

Qui si può leggere un’intervista concessa doo l’assegnazione del Premio Cervantes nel 2012:

http://www.edizionisur.it/sotto-il-vulcano/15-02-2012/i-poeti-sono-scesi-dallolimpo/

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Ugo Cornia, Buchi

Il linguaggio è il nostro modo di convivere con i morti

Raúl Zurita

 

Buchi, l’ultimo romanzo di Ugo Cornia pubblicato da Feltrinelli, malgrado il minimalismo del titolo è il suo libro più importante, e malgrado l’apparente frammentarietà il più unitario. Lo dirò subito con semplicità: è il suo libro più bello. Vale a dire più intenso, più convincente, più coraggioso.

Cornia ci ha abituato a titoli che giustificavano da soli l’acquisto del romanzo: Le pratiche del disgusto, Sulla felicità a oltranza, Quasi amore, per citarne alcuni, ma questa volta ne ha scelto uno abbastanza ermetico e allusivo per quella che è forse la sua confessione più sincera e disarmante. Ve l’immaginate Peter Pan a cinquant’anni? Eppure, è toccato anche a lui, e avrà pensato: tanto vale approfittarne per cominciare a ragionare sulla sgradevole sequela dell’età matura: vecchiaia, malattie, morte, timori e fantasie dell’aldilà…

Gli affezionati lettori di Cornia che si sono divertiti con le sue storie familiari riconosceranno molti personaggi che sfilano nel romanzo – i genitori, il nonno, zia Maria e zia Bruna –, ma questa volta si tratta di veri e propri fantasmi che rievocano perlopiù episodi dolorosi, e la nostalgia dei ricordi d’infanzia si colora d’angoscia. Un’angoscia niente affatto isterica o urlata, ma piuttosto rassegnata, serena, se mi si passa l’ossimoro, che sprigiona fin dal folgorante incipit: «Quella voglia di essere già morti». (Toh, un endecasillabo, forse è per questo che si va a capo dopo la virgola. O forse, più banalmente, sono saltate le banali regole tipografiche.)

Ma torniamo indietro di una pagina: la frase di Peter Brown in epigrafe ci offre una preziosa chiave di lettura: «L’argomento di questo libro è il legame fra cielo e terra, e la parte svolta, in questo legame, da esseri umani morti». Sta comodamente in un tweet, difficile fare una sintesi più efficace. La riflessione filosofica è una delle passioni di Cornia, sospetto più forte di quella per il lambrusco e i ciccioli – il suo penultimo libro è Sono socievole fino all’eccesso. Vita di Montaigne, pubblicato da Marcos y Marcos –, ma nelle opere precedenti la esercitava anche su temi non cruciali e con un tono più smaliziato, mentre qui si fa densa e penetrante. Per esempio in questo brano: «… c’erano dei bambini non nati, ma che sarebbero nati prima o poi, e c’era, nel piano del tempo in cui stanno i bambini non nati, un funzionario delle disposizioni universali del sempre, e questo funzionario, per lavoro, andava a prendere questi bambini non nati, ma che prima o poi sarebbero stati dei nati, in quanto poveri venienti al mondo, e andava a impiccarli tutti a qualcosa, per sempre». La pennellata umoristica del “funzionario delle disposizioni universali del sempre” non offusca del tutto la drammaticità della scena, che esala un retrogusto di filosofie gnostiche, smentito peraltro da altre affermazioni dal sapore decisamente agnostico: «tutto che finisce e non finisce mai di finire, ma sarà finito un giorno o non finirà mai».

A suscitare le riflessioni di cui sopra e il conseguente stato d’animo maliconico da cui nasce il romanzo è un trasloco, un’esperienza che non comporta soltanto un’infinità di fastidi pratici. Infatti i mobili, gli oggetti, le radiografie, le lettere, tutte quelle «macerie della mia vita e della vita dei miei», cambiando casa si portano appresso un carico di passato, e maneggiarle significa anche riattivare un contatto con i loro antichi proprietari. E poi c’è il problema, anche quello non solo di ordine pratico ma affettivo, della divisione dei mobili con la sorella. Sì, quella che figurava anche nel titolo di un precedente romanzo di Cornia: Animali (topi cani gatti e mia sorella). Ma soprattutto ogni trasloco pone una domanda: «avrò d’ora in avanti, in questa nuova casa una nuova vita? E questa nuova vita mi piacerà?». È un passaggio importante e delicato, soprattutto se uno lascia la casa in cui ha vissuto per una vita intera.

In Buchi anche l’idiosincrasia per i luoghi comuni del linguaggio deborda, e dall’ironia sottile – penso a una godibilissima paginetta di Roma in cui Cornia smonta l’espressione “realizzarsi nel lavoro” – si passa al fastidio: «Forza e coraggio. Altra nuova bella frase della serie. Non si è mai finito, sembra ieri. Sembra impossibile. Anche Forza e coraggio adesso. Sicuramente mai detto io». E ancora: «ma quelle frasi che ritornano, che non si è mai finito, uffa, sempre quelle frasi». E il linguaggio di Buchi è un ulteriore passo in avanti, direi una risoluta falcata, sulla via della liberazione da costrizioni sintattiche, grammaticali e d’interpunzione che Cornia del resto ha sempre ignorato olimpicamente nella sua narrativa, adottando il parlato, termini dialettali e neologismi. Qui però ha innestato una marcia in più: la scrittura a tratti diventa sincopata, stenografica, come in un diario o in quaderno di appunti personali, spariscono verbi o congiunzioni inutili alla comprensione del concetto, che vuole arrivare urgentemente in tutta la sua immediatezza, e la narrazione guadagna in ritmo e soprattutto in intensità. Per il suo monologo fra sé e sé e con i propri cari ormai defunti Cornia aveva bisogno di una lingua speciale e se l’è inventata, poi è riuscito a renderla comprensibile anche a noi, i suoi lettori analfabeti.

(A proposito di neologismi: in Buchi ce n’è uno che dovrebbe essere accolto al più presto dall’Accademia della Crusca: slaterare: «Slaterare, slaterare sempre se c’è almeno un buco, traversa il buco e slatera se puoi. Dritto ti stampi». Un’epigrafe di Deleuze ci rivela che Cornia conosce sicuramente varie linee di fuga… Che dire: ragazzi, date retta a zio Ugo, che la sa lunga.)

Si può leggere Buchi come un romanzo gotico rurale, come un improbabile Libro padano dei morti. Per quel continuo riferimento alle “potenze infere” racchiuse nei cassetti delle scrivanie o libere di circolare nelle campagne intorno a Guzzano, per l’evocazione dei fantasmi, per il richiamo del sepolcro («non una cosa punitiva da inferno cristiano, una cosa tipo abisso, con le voci che ti chiamano giù – cosa resti a fare su –». Ma non dimentichiamo: Cornia ha scelto la felicità a oltranza, «un testo che fin dal titolo trasmetteva un mix di entusiasmo vitale e di trattato filosofico», come ha scritto acutamente una critica dell’edizione spagnola di quel romanzo, perciò non è certo il caso di abbandonarsi alla disperazione: basta inventarsi «un piccolo centro d’ordine in mezzo alle forze del caos, che ti fa arrivare in salvo».

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