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La ciencia ficción in Spagna / 2

antologia de la ciencia ficcion 1Dalla metà degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta si assistette a un vero e proprio boom di pubblicazioni, a cominciare dalla collana “Nebulae”, della casa editrice Edhasa, che fece conoscere finalmente gli autori statunitensi dell’epoca d’oro, come Heinlein e Asimov, ma anche russi, francesi e qualche spagnolo come Domingo Santos. A pubblicare per la prima volta la trilogia della Fondazione di Asimov fu però una casa editrice di Barcellona, città in cui si sviluppò in quel periodo la maggior attività editoriale nel campo, con la nascita di diverse collane che ebbero diversa sorte e durata.

Da notare che non si traducevano solo autori anglosassoni, ma si ricorreva spesso anche al catalogo francese della casa editrice Fleuve Noir, senza contare che i lettori spagnoli avevano a disposizione anche diversi testi di autori latinoamericani, tra cui la famosa rivista argentina “Mas allá”, che arrivava regolarmente agli aficionados.

Negli anni Sessanta quindi cominciò a formarsi quella che potremmo chiamare la “prima generazione” di scrittori di fantascienza spagnoli, dal momento che in precedenza si erano avuti soltanto dei pionieri, individualità totalmente isolate e spesso del tutto all’oscuro di quanto si pubblicava all’estero. E così apparvero i primi racconti e romanzi firmati da Carlos Saiz Cidoncha, Luis Vigil, Domingo Santos, Antonio Ribera, Juan José Plans, Carlos Frabetti. Alcuni di questi scrittori, come Cidoncha e Santos, svolgeranno un ruolo importante fino ai nostri giorni e avremo modo di parlarne in seguito.

Frabetti, un italiano trapiantato in Spagna che diresse le collane di fantascienza dell’editore Bruguera, scrisse un’opera teatrale, Sadomáquina, che fu rappresentata per la prima volta a Barcellona nel 1969. In Sadomáquina l’umanità è schiacciata da un sistema totalitario oppressivo, una “grande Sodoma tecnologica, una gigantesca macchina cieca di cui ogni uomo è un ingranaggio, avviata verso la distruzione”; essendo ancora vivo Franco e ben saldo il suo regime, risultava abbastanza evidente la professione di fede politica dell’autore. Ma si tratta di un’eccezione. In genere gli autori di questo periodo affrontano temi classici come le civiltà del futuro, l’astronave perduta nello spazio (La nave, di un autore del mainstream, Tomás Salvador) o gli scenari postatomici, ma senza arrischiarsi ad affrontare di petto questioni ideologiche o politiche, per ovvi motivi legati alla vigile presenza della censura.

In seguito probabilmente a una saturazione del mercato, verso la fine degli anni Sessanta si verificò una crisi con la conseguente chiusura di diverse collane, ma in compenso apparve la rivista “Nueva Dimensión”. La presenza di una rivista, oltre a costituire un vero e proprio fandom, rilanciò anche il racconto, fino a quel momento un po’ trascurato a favore del romanzo. E così, insieme ai racconti, cominciarono a comparire le prime antologie: Bruguera ne pubblicò tre fra il 1967 e il 1969, e altre tre furono pubblicate da diversi editori fra il 1972 e il 1973.

Anche in questo periodo non vi sono grandi sconvolgimenti per quel che riguarda le tematiche: rimane sempre molto scarsa la presenza di opere di hard-fiction, né ebbero rilevante influenza la corrente sociologica o le varie tendenze in cui aveva cominciato a frazionarsi la science-fiction statunitense. Fra le novelas de a duro degli anni Settanta vale la pena menzionare la serie “El Orden Estelar”, firmata A. Torkent, di Ángel Torres Quesada. Fin da giovanissimo scrittore per passione, iniziò pubblicando romanzi polizieschi e di guerra, racconti del terrore, e verso la fine degli anni Sessanta si “convertì” definitivamente alla ciencia ficción, diventando uno dei più prolifici scrittori di space-opera. Fra il meglio della sua produzione la Trilogia delle isole, che prende l’avvio dal tema classico del gruppo di uomini trasferiti su un pianeta sconosciuto. Ancor oggi molto attivo, nel luglio di quest’anno [2001] ha vinto il premio per un racconto messo in palio dalla Pepsi-Cola alla XVII convention che si è tenuta a Gijón, nelle Asturie.

Uno spartiacque decisivo per la storia spagnola recente, e dunque di riflesso anche per le vicende del piccolo mondo editoriale specializzato nella fantascienza, è costituito indubbiamente dalla morte di Franco nel 1975: la progressiva scomparsa della censura ebbe per effetto la rinascita di numerose collane, ma paradossalmente all’inizio penalizzò gli autori nazionali, che assistettero impotenti all’invasione delle traduzioni di romanzi di scrittori anglosassoni.

E così, a parte un’antologia curata da Domingo Santos, e un romanzo niente affatto entusiasmante di Juan Trigo, Desierto de niebla y ceniza (1978), negli anni Settanta l’unico autore spagnolo che trovò buona accoglienza presso le case editrici fu Gabriel Bermúdez Castillo. Una studiosa francese ha scritto nella sua tesi di laurea sulla ciencia ficción in Spagna che “se Domingo Santos è l’autore della fantascienza spagnola degli anni Sessanta, Bermúdez Castillo è quello degli anni Settanta”.

Futuro imperfecto, Domingo SantosDomingo Santos, pseudonimo di Pedro Domingo Mutiño, è sicuramente lo scrittore più conosciuto all’estero. Traduttore, editore, curatore di collane editoriali specializzate e direttore della rivista “Nueva Dimensión”, ha disimpegnato un ruolo fondamentale nella storia del genere. Passò anche lui attraverso il duro apprendimento del mestiere di scrittore con le novelas de a duro, ma il suo primo romanzo breve, Volveré ahier (Tornerò ieri), che trattava di viaggi nel tempo e paradossi temporali, fu respinto inizialmente proprio perché “troppo buono” per una collana di serie B. Gabriel fu tradotto in francese, svedese e giapponese. Hacedor de mundos (Fabbricante di mondi), del 1986, è la storia di un superuomo che finisce sulla Terra dopo un incidente. Tutt’ora molto attivo, ha due libri inediti: il romanzo El día del Dragón e l’antologia di racconto Esto no son historias de ciencia ficción, che usciranno in collane non specializzate.

Nel 1971 Bermúdez Castillo pubblicò un romanzo breve di sapore lovecraftiano, El mundo Hokum, e ricevette un premio speciale alla convention europea di fantascienza di Trieste dell’anno successivo. Nel 1976 uscì Viaje a un planeta Wu-Wei. In quest’ultimo romanzo, il protagonista è esiliato dalla Città, una realtà ultramoderna e ipertecnologica, sulla Terra, dove gli abitanti conducono una vita tranquilla in una società bucolica, all’insegna della filosofia orientale del Wu-Wei, secondo il principio del “non agire”. Intenzionato inizialmente a ritrovare un contatto per rientrare nella Città, alla fine il protagonista preferisce fermarsi a vivere lì insieme alle sue due mogli. L’ambientazione e l’indole dei personaggi sono tipicamente spagnole, così come in molti romanzi successivi. Bermúdez Castillo continuò a pubblicare negli anni Ottanta e fino ai primi anni Novanta (El Señor de la Rueda e Golconda nel 1986, El Hombre Estrella nel 1991 e Salud mortal nel 1993), per arrendersi poi di fronte alla difficoltà di pubblicare i suoi ultimi inediti durante una fase di contrazione del mercato editoriale di settore.

Secondo Julián Díez, critico e direttore di riviste e colane specializzate come “Gigamesh” e “Artifex”, la caratteristica forse più notevole di Bermúdez Castillo, insieme alle sue pregevoli doti stilistiche, è proprio il “sapore assolutamente autoctono” della sua narrativa. Inoltre, con lui fanno il loro ingresso ufficiale nella letteratura di fantascienza peninsulare le situazioni umoristiche e la descrizione di rapporti sessuali, che saranno poi coltivate fino ai nostri giorni.

Un altro autore che ha introdotto nella ciencia ficción un personaggio tipico della letteratura spagnola, il pícaro, ovvero un simpatico gabbamondo che vive spregiudicatamente di astuzie e piccoli imbrogli, è stato Carlos Saiz Cidoncha. Cultore principale, insieme ad Ángel Torres Quesada, della space-opera, e noto soprattutto per La caída del Imperio Galáctico, del 1978, sul tema classico della decadenza di un immenso impero galattico che ricorda per certi aspetti quello romano. Cidoncha è anche l’autore di Memorias de un merodeador estelar. Merodeador si potrebbe tradurre con “predatore”, e in effetti il protagonista di questa space-opera è un antieroe per eccellenza, cinico sostenitore di un egoismo a oltranza, ma in qualche modo riesce simpatico al lettore. Di Cidoncha, inoltre, occorre ricordare il costante impegno profuso per lo sviluppo della ciencia ficción in Spagna, tramite la collaborazione alle più svariate iniziative editoriali e associative, oltre al poderoso studio da lui dedicato alla storia e all’analisi critica del genere.

Historia y antología de la ciencia ficcion españolaAltri autori che si erano messi in luce con alcuni racconti cominciano a trovare spazio in una collana di tascabili economici a metà degli anni Ottanta: Juan Miguel Aguilera e Javier Redal, che scrivono a quattro mani, e Rafael Marín Trechera. Aguilera e Redal pubblicano Mundos en abismos, la prima significativa prova di due spagnoli nell’hard fiction, che presenta un solido impianto e interessanti anticipazioni sul tema del fondamentalismo (Redal è biologo e si sbizzarrisce a descrivere una fauna spaziale attenendosi rigorosamente a estrapolazioni scientifiche). Il loro lavoro insieme è proseguito con Hijos de la eternidad, una continuazione della saga, e oggi questi due romanzi sono stati riediti nella Biblioteca electrónica dell’AECEF (Asociación Española de Fantasía y Ciencia Ficción) su cd-rom insieme ad alcuni racconti e illustrazioni, con il titolo Mundos en la Eternidad. Recentemente Aguilera ha firmato da solo La locura de Dios, romanzo d’avventura basato su una documentata ricostruzione storica ma con tratti fantastici che ha per protagonista l’enigmatica figura del monaco catalano Raimondo Lullo.

Lacrimas de luz, Rafael MarínRafael Marín Trechera, un autore di Cádiz nato nel 1959, dedica alla passione per la fantascienza anche il suo impegno professionale di traduttore, e dopo essersi messo in luce con alcuni racconti ha pubblicato il suo primo romanzo, Lágrimas de luz, nel 1984. Si tratta di una narrazione epica e picaresca che ha per protagonista Hamlet Evans, un poeta imbarcato su astronavi terrestri destinate a reprimere senza pietà qualsiasi tentativo di autonomia ai confini di un impero dominato da un’onnipotente corporazione. Hamlet ha l’incarico di cantare le gesta belliche dell’equipaggio, però matura una repulsione per quella vita e diventa prima uno sbandato e poi un ribelle consapevole. Dopo varie avventure e disavventure entra in contatto con un circo che è una sorta di teatro politicizzato ambulante, si innamora della ragazza-farfalla e quando il direttore del circo viene arrestato ne prende il posto per guidare la piccola tribù verso la salvezza e la libertà. In seguito, con Mundo de dioses (basato su personaggi che somigliano ai supereroi della Marvel) vinse ex equo il premio dell’UPC (Universidad Politécnica de Cataluña) nel 1991, alla sua prima convocazione.

 

(continua…)

 

(Pubblicato su “Futuro Europa”, n. 28, 2001)

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Approfondimenti

La ciencia ficción in Spagna / 1

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Ciencia ficción, il termine spagnolo che traduce l’inglese science-fiction, non fu coniato in Spagna, bensì in Argentina, dove comparve per la prima volta nel 1955, mentre occorrerà attendere il 1960 per trovare l’espressione sulla copertina di una collana editoriale specializzata spagnola.

Tralasciando i racconti di viaggi fantastici sulla Luna e alcuni scritti di carattere utopistico che potrebbero essere considerati remote anticipazioni, i primi vagiti di una letteratura di ciencia ficción in Spagna si possono far risalire al 1843, anno della pubblicazione di Ayer, Hoy y Mañana (Ieri, oggi, domani) di Antonio Flores, dove si viaggia su un mezzo di trasporto che assomiglia molto a una metropolitana. Pochi anni dopo, nel 1887, si stampava El anacronópete, di Enrique Gaspar, che precedette di otto anni H.G. Wells con l’invenzione di una macchina per viaggiare nel tempo.

Uno degli autori più importanti che verso la fine dell’Ottocento segnarono gli esordi del genere fu Nilo María Fabra, nei cui racconti, che celebrano soprattutto il trionfo dell’elettricità, figurano numerose invenzioni tecnologiche: il fonografo, il telefono e persino la televisione (telefotoidoscopio). Dal complesso dell’opera di Fabra emerge anche un aspetto che lo accomuna alla grande maggioranza degli scrittori che sconfinano nel fantastico in questo periodo, e che rappresenta del resto una costante in tutto lo sviluppo successivo della fantascienza spagnola: la preponderanza della tematica politico-ideologica (di stampo nettamente conservatore, salvo rarissime eccezioni). Di qui la proliferazione di scritti satirici e anti-utopistici che, pur esaltando le conquiste tecniche e scientifiche e le prospettive di progresso, non esitavano a polemizzare ferocemente con il “corrotto democraticismo liberale” o le “follie dell’anarchismo”.

Se si considera che la vocazione prevalente della letteratura spagnola è sempre stata verso il realismo (non bisogna lasciarsi trarre in inganno da qualche episodio fantastico del Don Chisciotte), non stupisce che il genere fantascientifico nella penisola iberica sia nato dal matrimonio tra due forme letterarie “popolari”: gli scritti di divulgazione scientifica e quelle narrazioni che oggi chiamiamo “fantapolitica”. E in fondo non stupisce nemmeno che la critica letteraria ufficiale, quasi senza eccezioni, tolto il nome di Fernando Savater, abbia sempre ignorato con un certo sdegno gli scrittori che si sono dedicati al genere fantascientifico o fantastico in senso lato. Come scrive il critico Eugenio Sánchez Arrate: «In passato grandi figure della critica letteraria spagnola, come Menéndez Pidal, Joaquín Costa, Ortega y Gasset, uomini che hanno avuto una grande influenza sui destini e i parametri critici della nostra letteratura, hanno stabilito una barriera ufficiale contro il romanzo fantastico e qualsiasi riferimento non realista nella scrittura creativa».

Un altro esponente di rilievo degli esordi e di questa tendenza alla popolarizzazione di temi legati al progresso tecnico e scientifico è José de Elola y Gutiérrez, considerato da alcuni il Jules Verne spagnolo, anche perché l’influenza di Verne sulla sua produzione è evidente, soprattutto negli intenti didattici. Si scelse lo pseudonimo di Colonnello Ignotus e nel 1921 inaugurò il primo tentativo di dare vita a una collana di letteratura fantastica. E una certa fortuna gli arrise, tant’è che ancor oggi uno dei premi annuali più ambito nel genere si chiama proprio Ignotus. Sostenitore di una Federazione Ispanoamericana, ferocemente avverso all’influenza e alla mentalità anglosassone e nel contempo critico del comunismo, il Colonnello Ignotus era un patriota, un conservatore in politica e in religione. Fra i suoi numerosi romanzi, una trilogia che ricostruisce la storia di una spedizione spaziale su Venere guidata da una scienziata aragonese. Accanto a lui bisogna ricordare Jesus de Aragon y Soldado, che usava lo pseudonimo Capitano Sirius e privilegiava maggiormente l’azione e l’avventura a scapito degli aspetti di divulgazione scientifica. Nel romanzo Una extraña adventura de amor en la Luna affida il ruolo di protagonista e voce narrante al celebre astronomo Camillo Flammarion.

Non mancano le incursioni nel genere di alcuni autori del cosiddetto mainstream, dal tormentato Miguel de Unamuno, che nel 1913 pubblica Mecanópolis, al surreale Ramon Gomez de la Serna, che affrontò il tema dell’energia atomica con El dueño del átomo (Il padrone dell’atomo), fino a Wenceslao Fernandez Flores, che raccontò con toni umoristici la ribellione delle automobili in una società del futuro in El hombre que compró un automovil (Il tema viene ripreso nel racconto di Domingo Santos, Gira, gira…). Comunque, bisognerà arrivare alla proclamazione della Repubblica, nel 1931, per vedere pubblicati i primi racconti di scrittori di fantascienza statunitensi, e come scrive Carlos Sainz Cidoncha nelle sue Tesi sobre la ciencia ficción en España: «Nei sei anni della Repubblica il genere raggiunse in Spagna il massimo della popolarità (…) Ma con la guerra civile la produzione di romanzi di fantascienza cessò del tutto, sia nella zona nazionalista sia in quella repubblicana».

Questo silenzio era destinato a prolungarsi fino alla fine degli anni Quaranta, quando cominciarono a rispuntare timidamente traduzioni di racconti di autori statunitensi, e poi si dovette attendere l’apparizione della collana “Futuro” nel 1953, diretta da José Mallorquí Figueroa, per veder rinascere la fantascienza in versione nazionale, sia pure, e per la prima volta, per una diretta influenza anglosassone.

futuro_4Mallorquí, conosciuto anche da noi per il suo personaggio “il Coyote”, iniziò come traduttore dall’inglese e aveva già avuto un certo successo di pubblico con i suoi romanzi d’azione ambientati nel West quando, in seguito a un viaggio negli Stati Uniti, ebbe una folgorazione per autori come Gernsback e Campbell. Tornato in Spagna con la convinzione che le avventure spaziali erano destinate a un grande esito sul piano commerciale, persuase un editore a pubblicare una collana dedicata esclusivamente alla fantascienza. Il suo personaggio più riuscito, protagonista di numerose avventure, era il capitano della Federazione Terrestre Pablo Rido, descritto da lui stesso come «un eroe romantico, a metà strada fra il detective privato e il mercenario, amante della libertà e dell’indipendenza».

Una delle caratteristiche della collana era l’esaltazione nazionalista del ruolo degli spagnoli, invariabilmente primi ad arrivare sulla Luna e a conquistare i diversi pianeti del sistema solare. La pubblicazione di “Futuro”, che ebbe un certo successo di vendite, si interruppe nel 1956, ma nel frattempo era già sorta un’altra collana, “Luchadores del Espacio”, che avrebbe costituito il prototipo per un importante filone della produzione editoriale complessiva del genere, quello dei romanzi di serie B, le cosiddette novelas de a duro (un “duro” era una monetina da 5 pesetas, ora fuori corso). Si trattava di romanzi brevi d’avventura, in edizioni tascabili, rivolti soprattutto a un pubblico giovane e quindi accessibili alle sue tasche.futuro_3b

In “Futuro” fu pubblicata la cosiddetta Saga degli Aznar, la prima space-opera spagnola, di cui uscirono 32 puntate fra il 1953 e il 1958. (Con l’aggiunta di nuovi titoli, fu riedita negli anni Settanta e nel 1978 ricevette il premio per la miglior serie di fantascienza pubblicata in Europa alla convention di Bruxelles.) Il pilota di caccia Miguel Ángel Aznar e la sua prole sono protagonisti epici di ogni sorta di avventure belliche nello spazio, sulle orme di analoghi protagonisti dei romanzi pulp americani degli anni Quaranta di scrittori come Jack Williamson o Edmond Hamilton. Del resto l’autore, Pascual Enguidano Usarch, era costretto come tutti all’epoca ad assumere uno pseudonimo anglosassone (George H. White) per vedersi pubblicare.

futuro_2Il merito delle novelas de a duro, la cui lettura oggi ha evidentemente un gusto un po’ archeologico, è comunque quello di aver preparato una fucina di scrittori e di lettori. Contemporaneamente bisogna registrare il successo di alcuni personaggi dei fumetti (negli anni Trenta era già sbarcato sulla penisola iberica Flash Gordon), come il comandante Diego Valor, le cui strisce arriveranno a tirature di 125.000 copie e che scomparirà definitivamente solo nel 1964.

 

(continua…)

 

(Pubblicato su “Futuro Europa”, n. 28, 2001)

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Approfondimenti, Lezama Lima, Lezama Lima approfondimenti

José Lezama Lima, Paradiso

Torna in libreria Paradiso, del cubano José Lezama Lima, per le Edizioni Sur, dopo la prima edizione italiana Rizzoli voluta da Alba de Cespedes nel 1990 e quella Einaudi, decisamente più affidabile, del 1995. Quest’ultima traduzione, ripresa da Sur, vinse il premio Grinzane Cavour ed è del compianto Glauco Felici, come pure il glossario e un «repertorio di cose, luoghi e personaggi». Completano il volume una prefazione di Chiara Valerio e parte di un lungo scritto di Julio Cortázar del 1966, «Per arrivare a Lezama Lima».

Salvo alcuni capitoli comparsi già a partire dal 1949 sulla rivista «Orígenes», da lui fondata e diretta, la prima edizione cubana dell’opera risale al 1966, quando Lezama Lima (1910-1976) era un apprezzato poeta e saggista ultracinquantenne, conosciuto a livello internazionale. In effetti Paradiso si abbevera alle fonti primigenie della poesia lezamiana, ovvero al ruolo centrale dell’immagine, mentre condivide con il saggio un solido impianto argomentativo basato su una colossale ed eterodossa erudizione e sul gusto per le digressioni. Ne scaturisce un romanzo decisamente anomalo, dove si rievocano manifestazioni studentesche ma anche l’estrazione di un fibroma o gli insaziabili appetiti sessuali degli afosi pomeriggi dell’Avana. Un romanzo che si può anche riassumere, per fornire una mappa al lettore, ma questo lettore deve appartenere alla schiera di quelli che amano le cose difficili: «Solo il difficile è stimolante», ci avverte l’autore. Infatti, al di là della “storia”, ovvero della trama errabonda, ciò che conta è il torrente di immagini, metafore, allusioni, in cui si affastellano nozioni enciclopediche e lampi di filosofie gnostiche insieme a ricette di cucina, che lasciano il lettore in balia di una scrittura senza argini, rizomatica, talvolta sospesa sul baratro dell’incomprensibilità. Ma sempre alla ricerca di una salutare tensione verso l’armonia primordiale, nella quale la realtà è un continuum: dalle sensazioni soggettive alla fisicità delle cose, unica guida la bussola del desiderio.

Paradiso, dunque, parla dell’infanzia di José Cemi (alter ego dell’autore), figlio di un ufficiale, che trascorre i suoi primi anni in accampamenti militari, in Giamaica e poi in Messico, ma che rimane presto orfano e viene coccolato dalle donne di casa. Gli attacchi d’asma – di cui soffriva anche l’autore, impenitente fumatore di sigari – gli provocano incubi e lo spingono a rifugiarsi nelle letture e nella riflessione. Dopo un lungo excursus sulla sua storia familiare, segue il racconto delle esperienze adolescenziali, l’iniziazione al sesso e alla poesia, le appassionate discussioni con gli amici universitari, la figura dell’amata madre, centrale anche nella vita di Lezama Lima, e dopo la morte della nonna l’incontro con Oppiano Licario, che sarà suo maestro e protettore spirituale, nonché il protagonista di un secondo romanzo omonimo, pubblicato postumo.

Nel gennaio del 2011 la rivista «Revolución y Cultura» dedicò un numero a Lezama Lima per rendergli onore nel centenario della nascita, con articoli di Abel Prieto, allora come oggi ministro della Cultura e del poeta Cintio Vitier, il principale fautore della sua “ufficializzazione”. Per leggere i contributi critici più interessanti bisogna però tornare al volume Recopilación de textos sobre José Lezama Lima, pubblicato all’Avana nel 1970, nel quale comparivano fra gli altri scritti di Mario Vargas Llosa e Juan Ramon Ribeyro, oltre al già citato testo di Cortázar. Vargas Llosa e Ribeyro convenivano sul fatto che Paradiso è un «tentativo impossibile», simile a quello di opere come Finnegan Wake di Joyce o L’uomo senza qualità di Musil, «per la smisurata, vertiginosa volontà che manifesta di descrivere integralmente, nei suoi vasti lineamenti e persino nei più reconditi dettagli, un universo forgiato da capo a piedi da un creatore dotato di un’immaginazione ardente e da una sensibilità speciale» (Vargas Llosa). Ribeyro, dal canto suo, sostiene che «il lettore ha spesso l’impressione di essere stato convocato (…) allo spettacolo di un portentoso naufragio», e che Paradiso «si situa in quell’ambito di libri eterodossi, anarchici, arbitrari, nutriti di una ricca sostanza autobiografica».

Nel 1971 su Lezama Lima calò il silenzio ufficiale del regime per tutta la durata del cosiddetto quinquenio gris, periodo nel quale la burocrazia e la censura intervennero pesantemente in ambito culturale per isolare e colpire qualsiasi forma di dissidenza. Virgilio Piñera fu rinchiuso nei campi delle famigerate UMAP (Unità Militari di Aiuto alla Produzione) e Reinaldo Arenas trascorse un anno e sei mesi nella prigione del Morro, entrambi accusati di “condotta impropria”, definizione eufemistica per l’omosessualità. Lezama Lima, pure lui omosessuale, e per di più cattolico, se la cavò con l’ostracismo nei confronti della sua persona e della sua opera: Paradiso fu giudicato scandaloso e ritirato dalle librerie. Vinse un premio in Italia ma gli negarono il visto di uscita per partecipare alla cerimonia a Roma.

In Italia il contributo critico più corposo e interessante su Lezama Lima è venuto da Francesco Varanini, che nel suo Viaggio letterario in America Latina (1998) gli dedica un capitolo mettendolo a confronto con il connazionale Alejo Carpentier. Di solito catalogati entrambi sotto l’etichetta del «barocco», non potrebbero darsi due scrittori più diversi, e Varanini contrappone il «lavoro metodico» e la «scrittura autorevole, calata dall’alto di un disegno cui niente deve sfuggire» di Carpentier, al «genio vulcanico che scappa da tutte le parti, inafferrabile, ingestibile» di Lezama Lima, per il quale «la scrittura è melodia individuale».

Julio Cortázar, fra i primi entusiastici ammiratori di Paradiso, ci ha dato un suggerimento di lettura particolarmente prezioso di questi tempi: «Bisogna leggere Lezama con lo slancio che precede il fatum, come quando saliamo sull’aereo senza domandare il colore degli occhi o lo stato del fegato del pilota».

 

(Pubblicato su alfabeta2)

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Felipe Polleri Germania, Germania!

Un titolo del genere, soprattutto di questi tempi, ricorda il sinistro Deutschland über alles, fa pensare a un saggio di economia o di storia (magari all’ottimo Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, di Vladimiro Giacché) ed evoca il cupo scenario di un IV Reich che sorge sulle macerie del «sogno europeo». Ma non si tratta di questo, se non in modo tangenziale (fin dalle prime pagine si evocano infatti le ceneri del ghetto di Varsavia, e la Seconda Guerra Mondiale, con al centro la Germania hitleriana, è uno degli assi tematici del libro). ¡ Alemania, Alemania! in realtà è il titolo del più recente romanzo di uno scrittore uruguayano ancora sconosciuto da noi: Felipe Polleri.

Lautréamont, Horacio Quiroga, Felisberto Hernández, Juan Carlos Onetti, Armonía Somers, Mario Levrero: l’Uruguay è una fucina di scrittori “raros”: rari, o strani, secondo una definizione ormai classica e un po’ abusata. L’ultimo, in ordine di tempo, di questa stirpe è Felipe Polleri, classe 1953, che a proposito di questa classificazione ha le idee molto chiare: «È un’etichetta che nasconde un retropensiero: “invece di leggerlo, diciamo che è un altro scrittore raro”. Essere scrittori in Uruguay è una cosa rara perché, diciamo, poco vantaggiosa. Dev’essere una vocazione molto forte, e quelli che hanno una vocazione molto forte è perché in genere hanno qualcosa da dire, dunque sono rari». Una vocazione molto forte, tradotto in soldoni, può significare anche dover abbandonare un lavoro fisso e sicuro per sacrificarsi al demone della scrittura, rassegnandosi a vivere in povertà. Ne sa qualcosa Polleri, che con una moglie e un figlio lasciò l’incarico di bibliotecario che occupava da quindici anni: «A Mario [Levrero] e a me il lavoro, la semplice parola lavoro (pochi soldi in cambio di molto tempo), faceva orrore». D’altra parte, non è facile ricavarsi un posticino nel cosiddetto «mondo del lavoro» quando non si vorrebbe «né comandare né essere comandati da nessuno». Infatti molti dei personaggi-narratori dei romanzi di Polleri sono artisti incompresi sull’orlo della follia (o decisamente deliranti), e non a caso tra i suoi referenti figurano, fra gli altri, scrittori francesi come Villon, Genet, Rimbaud e Artaud, oltre a Baudelaire, a cui ha dedicato uno dei suoi romanzi dal titolo fuorviante: Gran ensayo sobre Baudelaire.

Del resto, «Io è un altro», la rivelazione di Rimbaud, potrebbe figurare in exergo all’intera opera di Polleri, che comprende, oltre a quelle già citate, nove nouvelles, o romanzi brevi, perché le identità multiple delle sue voci narranti, che fondamentalmente fanno pensare a una sola, sono identità mobili, sempre sul punto di andare in mille pezzi o di imboccare una linea di fuga: «Presto, ci sono altre vite?» (di nuovo Rimbaud). ¡ Alemania, Alemania!, per esempio, è formata da tre racconti relativamente autonomi i cui protagonisti – Christopher, Parsifal e Antoine: un inglese, un tedesco e un francese – sciorinano le loro paranoie e le loro invettive in prima persona, mettendo in scena un gioco di maschere dietro le quali, come in un vero teatro della crudeltà di artaudiana memoria, traspaiono pulsioni e idiosincrasie dell’autore: «Il mondo, come lo racconto nei miei libri, pur con tutte le esagerazioni che volete, è realmente come credo che sia, come lo vedo». E come ha dichiarato nella stessa intervista, sollecitato da una domanda a proposito dello humor nero, dell’ironia e della violenza sempre più presente nei suoi romanzi: «Quando scrivo, a volte rido, e spero che succeda anche al lettore. I miei personaggi sono degli illusi, utopisti che speravano in un mondo migliore e non l’hanno trovato. Di lì nasce il risentimento verso il mondo reale che non ha corrisposto alle loro aspettative. Di solito, quasi sempre, si tratta di artisti in conflitto con la società. Quello che succede in Uruguay, no? Se vuoi dedicarti realmente a un’arte, la società ti emargina. Nel capitalismo, se non guadagni quattrini non vali niente. Il mondo reale è un mondo molto crudele».

In ¡Alemania, Alemania incontriamo un personaggio che dice di chiamarsi Christopher Marlowe e sostiene di essere morto e poi rinato come William Shakespeare – mentre Parsifal dichiara di essere figlio di Mengele –, ma anche una figura assolutamente reale come il dottor Hans Prinzhorn, lo psicoanalista che per primo studiò e collezionò dipinti e disegni dei malati mentali, alcuni dei quali sono riprodotti nel volume, insieme a foto e disegni dell’autore. E anche questa commistione di realtà e immaginazione sfrenata (qualcuno ha parlato di «neoespressionismo») contribuisce a rendere affascinante la lettura di quest’opera visionaria e vertiginosa.

Uno dei tratti comuni a molti “raros” uruguayani, forse con l’eccezione di Onetti, consiste nel circolare in modo sotterraneo e quasi segreto e di essere scoperti solo post mortem. È successo di recente a Mario Levrero – amico e «maestro magico» di Polleri –, che dopo aver pubblicato in vita con piccoli e piccolissimi editori viene ripreso oggi da grandi gruppi editoriali. In Italia è stato pubblicato finora solo Il romanzo luminoso (Calabuig, tr. di Maria Nicola), un’opera postuma in forma diaristica – una delle modalità di scrittura di Levrero –, ma bisogna leggere i suoi splendidi romanzi brevi e le raccolte di racconti per valutare la portata e l’originalità della sua sperimentazione letteraria.

Polleri, però, qualche speranza di sfuggire alla maledizione del «tu vivrai in miseria, ma il tuo cadavere sarà incensato» ce l’ha: hanno cominciato a tradurlo in Francia e in Portogallo, un editore di peso come Tusquet ha ripubblicato in un unico volume due suoi romanzi brevi, e può vantare giudizi lusinghieri di scrittori come Mario Bellatín («Tutti dovrebbero leggere Felipe Polleri, geniale scrittore uruguayano») e Fogwill.

Germania, Germania! Nella traduzione di Loris Tassi, sarà pubblicato nella collana Gli Eccentrici della casa editrice Arcoiris di Salerno grazie a un’iniziativa di crowdfunding.

 

(Pubblicato il 9 gennaio 2016 su Carmilla.)

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Carlos Ruiz Zafón, un “escritor horendo”

Annunciato da tempo con grande clamore, è disponibile da qualche giorno anche in Italia l’ultimo faticoso parto di Carlos Ruiz Zafón, che promette di concludere quella che la casa editrice definisce “l’avventura editoriale più appassionante della letteratura spagnola contemporanea”, iniziata nel 2001 con la pubblicazione del best seller mondiale L’ombra del vento. Finalmente i suoi appassionati lettori sparsi in tutto il pianeta potranno farsi un’altra scorpacciata (928 pagine nell’edizione spagnola!) di ombre, penombre, tenebre, abissi – il tutto “infinito”, beninteso – e poi di interminabili corridoi – curvi, in salita –, tunnel, scale che salgono fino a perdersi… nell’infinito, e naturalmente il celeberrimo Cimitero dei Libri Dimenticati, dove fra qualche anno sarà possibile ritrovare anche quelli di Zafón. I suoi fedeli lettori (o forse solo acquirenti) ritroveranno, se ancora ricordano i nomi, i beniamini di tante avventure, più qualche new entry, e soprattutto quella Barcellona gotica di cartapesta che a quanto pare ha catturato il cosiddetto “immaginario collettivo”. Ma la memoria dei lettori è corta, la saga decisamente prolissa, così qualcuno ha pensato bene di approntare una mappa di Barcellona e di Madrid, e un grafico per illustrare i rapporti fra i vari personaggi: http://image.casadellibro.com/documentacion/laminaZafon.pdf

Io attendo pazientemente di poter stilare una lista nera di critici e recensori che avranno il coraggio di incensare anche questo Il labirinto degli spiriti, e nel frattempo mi consolo rileggendo il lapidario giudizio di un autorevole critico spagnolo, Arcadi Espada – a cui si deve la definizione di “escritor horendo” – in occasione della pubblicazione di Il gioco dell’angelo:

Questo scrittore è un caso serio: a quanto pare ha venduto 10 milioni di copie della sua opera precedente, L’ombra del vento. Dieci milioni per 14,5 euro fanno 145 milioni di euro. Un bel giro di soldi.

Ignoro le ragioni del successo di Ruiz Zafón. Immagino che avranno qualcosa a che vedere con la scrittura, ma non capisco bene in che senso. Ho letto la presentazione del suo prossimo romanzo e la sua scrittura è molto scolastica, anche se, chissà come funziona adesso la scuola. Rispetto alla scrittura, tuttavia, è assai più interessante e significativo il frammento del nuovo romanzo pubblicato dal magazine:

«Una notte mi svegliai di colpo scosso da mio padre, che tornava dal lavoro prima del tempo. Aveva gli occhi iniettati di sangue e l’alito che sapeva di aguardiente. Lo guardai terrorizzato e lui palpò con le dita la lampadina nuda che pendeva da un cavo. “È calda.” Mi fissò e scagliò la lampadina con rabbia contro la parete. Andò in mille pezzi di vetro che mi caddero sulla faccia, ma non mi arrischiai a toglierli.»

Eccetera. È veramente brutto. Pessimo. Sette righe. Palpò con le dita, dichiara. Le lampadine sono di vetro, scopre. «Mille pezzi». «Fissò». «Iniettati di sangue». E questi poteri del ragazzo che in una stanza buia vede persino le venuzze negli occhi del padre. Il problema principale non è che Ruiz Zafón sia uno scrittore orrendo. Negli affari questo non è importante. La questione principale riguarda i suoi editori: che dopo essersi intascati all’incirca 70 milioni di euro con il suo primo libro non abbiano comprato al povero Zafón un’équipe di correttori o perlomeno un programma informatico di medio livello. L’incuria editoriale (che l’abbiano abbandonato con i suoi innumerevoli anacoluti e i suoi giulivi problemi di raccordo) è la cosa davvero sorprendente. A meno che l’incuria non sia proprio la causa del successo.

 

A seguire, la recensione che dedicai a Il gioco dell’angelo e che fu pubblicata a suo tempo da Pulp.

 

«Uno scrittore non dimentica mai la prima volta che accetta qualche moneta o un elogio in cambio di una storia. Non dimentica mai la prima volta che avverte nel sangue il dolce veleno della vanità e crede che, se riuscirà a nascondere a tutti la sua mancanza di talento, il sogno della letteratura potrà dargli un tetto sulla testa, un piatto caldo alla fine della giornata e soprattutto quanto più desidera: il suo nome stampato su un miserabile pezzo di carta che vivrà sicuramente più a lungo di lui. Uno scrittore è condannato a ricordare quell’istante, perché a quel punto è già perduto e la sua anima ha ormai un prezzo.»

Questo il malinconico incipit, finito pure in quarta di copertina nell’edizione italiana, dell’annunciato secondo best seller di Carlos Ruiz Zafón. Che uno degli scrittori più incensati e redditizi del momento si lasci andare a una confessione così disarmante mi fa quasi tenerezza… (nelle interviste perlopiù mi dà l’orticaria perché sputa scemenze: “Molti autori delle serie televisive sono i moderni Shakespeare, Dickens, Balzac. È tutta parte della stessa tradizione narrativa”).

Sì, Zafón, sei riuscito a spacciarti per uno scrittore di talento agli occhi di milioni di lettori e pure un a certo numero di impavidi (rispetto ai posteri) critici e recensori, e il sogno della letteratura ti ha garantito un tetto e la zuppa. (Standing ovation.) Da parte mia, che non ho letto L’ombra del vento e me ne vanto, dopo essermi sorbito il sequel sottoscrivo senza riserve l’equilibrato giudizio di un autorevole critico spagnolo: Zafón è uno “scrittore orrendo”. E il suo Il gioco dell’angelo un noiosissimo romanzo fallito. È sorprendente che un autore consacrato (che minaccia oltretutto di scrivere altri due tomi di questa saga, o sagra, grandguignolesca) riempia quasi settecento pagine con una trama che non è “complessa” ma balorda, debordante e sfilacciata, con personaggi che non sono altro che macchiette, situazioni ridondanti, descrizioni pedanti e confuse, macchinose e spente, e un’aggettivazione improntata ai più scontati luoghi comuni, che avrebbero richiesto vigorose sforbiciate da parte di un accorto redattore. Ci sono più “scale che salgono nella penombra”, porte che si aprono e si chiudono cigolando, stanze tenebrose, che nei Misteri di Parigi, più bottiglie e bicchieri, tavoli, sedie e poltrone – tutti rigorosamente inutili nell’economia generale del racconto, ennesima riproposizione del patto diabolico – che all’Ikea.

E la velleità di mixare tutti i generi “popolari”: poliziesco, sentimentale, thriller, fantasy in salsa new age (ma gli è scappata la mano col gotico), laddove mancano una ricostruzione accurata, senso della misura, ritmo narrativo, distanziamento parodistico o gusto per la citazione, dà l’impressione che Zafón abbia voluto scodellare un libro per un’editoria amnesica e per lettori analfabeti. E non scomodatemi Dickens, per favore.

Che questa roba sia destinata a diventare un best seller internazionale non dovrebbe stupire né scoraggiare gli appassionati di letteratura, che in queste faccende sanno a cosa attenersi e non si lasciano infinocchiare tanto facilmente: in fondo, un best seller è solo un libro che vende molto in poco tempo, dunque un’operazione di marketing ben riuscita, che c’entra con la letteratura? Checché ne pensi l’immodesto Zafón, per il quale “tutti i classici della letteratura, dalla Bibbia a Don Chisciotte, sono stati libri che vendevano molto”.

E poi, chissà che per una volta non abbia ragione lui a sostenere che i pregiudizi contro i best seller “sono il frutto di un’estetica degli anni 60 e 70”. Touché. Lo ammetto, sono uno “snobground”. Del resto, ognuno si sceglie l’estetica che vuole, se qualcuno ha soldi da buttare e tempo da perdere, può sorbirsi la tanto decantata “estetica gotica” di Zafón. Ma è avvisato: gli stanno rifilando fuffa.

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