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Il “realismo delirante” di Alberto Laiseca

Non c’è niente da ridere quando un’intera divisione di nani da giardino ti dichiara guerra

 

«Da dove saranno sbucati così tanti mostri?». La frase pronunciata dal protagonista di “I sette pazzi”, di Roberto Arlt, potrebbe figurare in exergo all’intera opera di Alberto Laiseca (1941-2016). Non a caso “Lai”, o “Iseka”, si meritò anche l’affettuoso soprannome di “El Monstruo”, perfettamente calzante se ci si attiene alla definizione del termine offerta da César Aira in una nota su “Moby Dick”: «una specie che consiste di un unico individuo». Laiseca, infatti, sempre inevitabilmente definito “inclassificabile”, costituisce una stridente anomalia rispetto al canone della letteratura argentina del Novecento. È piuttosto uno degli ispiratori del “controcanone” proposto da Damián Tabarovsky in un fortunato saggio del 2004 (“Literatura de izquierda”), fra i quali annoverava Manuel Puig, Osvaldo Lamborghini, Néstor Sánchez e Héctor Libertella, e a cui si unirono in seguito Copi, César Aira e Fogwill. Aira e Fogwill, non a caso, insieme a Ricardo Piglia, che ha paragonato Laiseca a Thomas Pinchon e Philip K. Dick, furono tra i suoi primi estimatori, e fu proprio Aira a suggerire a Simurg, un piccolo editore argentino – lo stesso che poi darà alle stampe i “Cuentos completos” di Laiseca – la pubblicazione di “Los Sorias”: oltre 1400 pagine pervase da un’atmosfera paranoica e incentrate sul tema del potere e sullo scontro fra tre dittature: Soria, Unione Sovietica e Tecnocrazia.  

Il canone argentino del Novecento, quasi inutile dirlo, era costituito da Borges e Cortázar. Borges, com’è noto, non amava la forma romanzo né mai ne scrisse, e si limitò a pubblicare, oltre all’opera poetica, racconti, saggi, prologhi, recensioni e testi d’occasione. Laiseca, per tutta risposta, ha passato dieci anni della sua vita a scrivere il romanzo più lungo della letteratura argentina, e altri sedici prima di trovare un editore. Borges si compiaceva di fare sfoggio di un’erudizione universale che dispensava in pillole nei racconti, avvolta in un’aura vagamente fantastica. Laiseca ha scritto romanzi voluminosi – “La mujer muralla”, ambientato nella Cina dell’imperatore che fece erigere la Grande Muraglia, e “La hija de Kheops”, che narra l’interminabile costruzione di una piramide in Egitto – sulla base di uno studio e di una documentazione rigorosi, frutto di una passione autentica per quelle civiltà. Beninteso, non si tratta di “romanzi storici”: la Cina e l’Egitto vengono reinventati, come l’Africa di Raymond Roussel, autore amato dai surrealisti e che riscuoteva tutta l’ammirazione di Laiseca. “La mujer muralla”, infatti, è stato definito “romanzo esotico”, mentre “La hija de Kheops”, a suo dire, è un “romanzo d’avventure”.

Anche un confronto per quanto riguarda l’umorismo non fa che accentuare la distanza fra Borges e Laiseca: molto “inglese”, compassato e sottilmente ironico il primo, quanto il secondo è “popolaresco”, sarcastico e debordante, soprattutto quando si scatena sull’argomento sesso.

Borges, del resto, è chiamato esplicitamente in causa da Laiseca in un racconto che dà il titolo a una raccolta del 2000: “Gracias Chanchúbelo”. Dopo aver proposto un’interpretazione personale del racconto borgesiano “L’accostamento ad Almotasin”, El Monstruo chiosa: «È un peccato che Borges non abbia scritto il romanzo di Almotasin e si sia limitato (in un racconto) a commentare il romanzo che non è mai esistito. Al giorno d’oggi, più che mai, come nelle antiche iniziazioni, non c’è evento più grande di ciò che accade fra Maestro e discepolo. Nessun motivo più grande che giustifichi un romanzo, un’opera». (Vale la pena sottolineare che Laiseca per quasi vent’anni ha tenuto una scuola di scrittura creativa, dove sono passati diversi giovani scrittori argentini.)

L’interesse per saperi insoliti e spurii – scientifici, ma anche teologici, astrologici, metafisici, esoterici… – lo accomuna invece ad Arlt, così come le vicende biografiche, in particolare il conflitto con il padre. Un prussiano severo fino all’eccesso per Arlt, un autentico Dittatore per Laiseca, rimasto orfano di madre a tre anni. Lui poi lo ha trasfigurato in un complesso personaggio ricorrente nei suoi romanzi e racconti: il tiranno Monitor.

Interrogato a proposito dei suoi terrori infantili, rispose: avere un mostro nascosto sotto il letto, e aggiunse che solo molto più tardi aveva capito che si trattava di suo padre. L’esito del conflitto sarà il medesimo che per Arlt: la fuga da casa e una serie di occupazioni frustranti. Dopo aver lavorato nei campi, Laiseca fece lo spazzino a Buenos Aires per sette anni, con stipendi da fame, poi fu operaio dei telefoni e per nove anni correttore di bozze presso il quotidiano “La Razón”. Nel frattempo continuava ostinatamente a scrivere e a creare uno stile del tutto personale: quel “realismo delirante” che ispira anche i racconti di “Uccidendo nani a bastonate” (tr. di Loris Tassi, Arcoiris, 152 pp., 12 euro).

In questa raccolta, infatti, si incontrano: un cadì arabo vissuto nell’anno 200 dell’Egira che si accanisce a torturare una vecchia, rea di avergli ficcato la borsa in un occhio (su un autobus azionato da quindici schiavi); una spiaggia popolata da pittoreschi clochard che si intrattengono raccontandosi storie strampalate e disquisendo dei massimi sistemi; incauti egittologi alla ricerca del clavicordo di Mozart, ignari del fatto che nasconde la sua mummia; uno scienziato pazzo che vuole costruire una macchina per viaggiare all’interno di un tornado; un campo di sterminio nazista nel quale si progetta di seppellire in una fossa gigantesca 1.400 milioni di cadaveri. (Vale la pena ricordare che il problema dell’eliminazione fisica dei detenuti nei campi mise davvero sotto pressione gli “scienziati” nazisti, che vagliarono innumerevoli soluzioni calcolando costi, tempi di esecuzione, ecc.)

A proposito del “realismo delirante”, Laiseca una volta ha affermato: “… con tutti quei calcoli assurdi, in realtà, non faccio altro che mettermi all’altezza dell’universo, perché l’universo è realista delirante. Vi sono degli assoluti nell’universo, ma nella risoluzione finale dei processi non vi è esattezza, bensì incertezza. Perciò, fare calcoli ridicoli è un modo per situarsi alla sua altezza”.

Vuole la leggenda che il gerundio nel titolo (“Matando enanos a garrotazos”, della cui scelta si occupa lo spassoso racconto che chiude la raccolta) gli sia costato un premio. Il suo commento? “Vi offro non solo gerundi, ma avverbi, frasi germanizzate, virgole prima del verbo, rime, iati e dissonanze”. Quanto all’originalità dei suoi titoli, basti pensare a “El gusano máximo de la vida misma” (letteralmente: “Il verme massimo della vita stessa”), o a “Por favor, ¡plágienme!”, un testo ibrido che simula il saggio. Non era del giudizio dei contemporanei che si preoccupava, ma della sopravvivenza della sua opera. Lamentava soprattutto la mancanza di traduzioni, motivo per cui fu contentissimo quando ebbe fra le mani una copia di “Avventure di un romanziere atonale”, una sorta di prologo a “Los Sorias” uscito nel 2014 sempre per le edizioni Arcoiris.

Una facile previsione: l’opera di Laiseca continuerà a guadagnare lettori, usciranno riedizioni dei suoi romanzi e racconti, la critica se ne interesserà sempre di più, si moltiplicheranno le traduzioni. Del resto, è il destino comune di tanti scrittori “eccentrici”: raggiungere la fama post mortem.

 

(Pubblicato su alfabeta 2, settembre 2017.)

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Approfondimenti

Titoli

Sosteneva un’amica su twitter qualche tempo fa che il titolo originale di un’opera dovrebbe essere tradotto fedelmente (Non ricordo se abbia usato l’espressione “alla lettera”, ma lo ritengo poco probabile.) Sta di fatto che, riflettendo su questa affermazione, sono riandato con la memoria a una serie di titoli di romanzi che ho tradotto, e sono arrivato alla conclusione che non sempre è possibile (o opportuno) tradurre un titolo “fedelmente”. Porterò qualche esempio.

pajaro_en_manoNel 2007 è uscito per la casa editrice e/o un romanzo dello spagnolo Juan Madrid il cui titolo originale era Un pájaro en la mano. Per i non ispanofoni: un pájaro è un uccello. Si può immaginare l’effetto di questo titolo tradotto letteralmente sul lettore italiano, il quale non è tenuto a sapere che allude a un refrain spagnolo: “Más vale un pájaro en la mano que ciento volando”, la cui consueta trasposizione italiana sarebbe: “Meglio una gallina oggi che un uovo domani”. Bene. Ma è plausibile un titolo come: Meglio una gallina oggi? Sconcerto del lettore, che in libreria ha preso in mano quello che gli è stato presentato come un noir. Soluzione? Essendo una storia di poliziotti corrotti, ho proposto Mele marce, a cui l’editore ha apposto un sottotitolo che non guasta e serve a chiarire ulteriormente di che cosa si tratta: “Marbella noir”.

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I fantasmi, il gotico surreale di César Aira

Los fantasmas, nella nutrita bibliografia delle opere di Aira, è il primo romanzo ambientato nel quartiere di Flores, a Buenos Aires, dove l’autore vive. Inaugura dunque quello che la critica ha chiamato il suo “ciclo urbano”, proseguito poi con La guerra de los gimnasios, La abeja, El sueño, Las noches de Flores, ecc. Il romanzo uscì in Argentina nel 1990, ma la sua stesura, come si evince dalla data in calce, fu ultimata il 13 febbraio 1987. (In fondo a ogni romanzo di Aira si trova una data, quasi a comporre un ideale diario; nel 1987 ne scrisse altri tre: El bautismo, La liebre ed Embalse, fra l’altro consistenti come numero di pagine, segno di un’irrefrenabile vena creativa.)

Los fantasmas presenta alcuni aspetti tematici che lo avvicinano agli altri romanzi “urbani”, ma per limitarsi al punto di vista stilistico vale la pena notare soprattutto una “voglia di realismo” che si manifesta nelle dettagliate descrizioni degli spazi e delle atmosfere, e nelle notazioni sociologiche e di costume. In quegli anni Aira non aveva ancora maturato l’insofferenza per i “tratti circostanziali”, si impegnava a “scrivere bene”, senza sacrificare tutto all’idea centrale della narrazione, e ci ha regalato narrazioni molto godibili, raffinate, ricche di fioriture poetiche, sia quando immerge il lettore nella favolosa e sterminata pampa argentina, come in La liebre, sia quando lo scenario in cui si sviluppano le sue imprevedibili narrazioni è lo spazio ancora indefinito di un edificio in costruzione, come nei Fantasmi. (Spazio che gli consente, fra l’altro, di aprire un’ampia digressione – un’altra costante nella sua opera – sul tema dell’architettura, con excursus di sapore enciclopedico e antropologico sulle concezioni architettoniche di culture esotiche.)

Aira introduce i suoi fantasmi – niente lenzuoli, si tratta di uomini nudi coperti di calce – quasi di soppiatto, tanto che la loro menzione può sfuggire a un lettore poco attento: nel viavai di gente che sale le scale sbuffando – gli ascensori devono ancora essere installati e l’afa è soffocante –, “altri non dovevano sobbarcarsi quella fatica: salivano e scendevano fluttuando, persino attraverso i pavimenti”. La seconda apparizione è altrettanto fugace e inspiegabile: “Sul bordo dell’antenna […] erano seduti tre uomini completamente nudi, il viso rivolto al sole di mezzogiorno; naturalmente, nessuno li vide”. Con la terza apparizione, quando per la prima volta vengono chiamati “fantasmi”, si esce definitivamente dai rassicuranti binari della verosimiglianza e il lettore viene trascinato nel vertiginoso universo di Aira: “Un muratore che passava per caso […] allungò la mano libera e senza fermarsi afferrò il pene di uno di loro, tirandolo mentre continuava a camminare. Il pene si allungò fino a due metri, tre, cinque, dieci, fino al marciapiede. Quando il muratore lo lasciò andare, tornò al suo posto con uno schiocco dagli strani suoni armonici […] I due fantasmi moltiplicarono le risate incontenibili, più forti che mai”.

A questo punto al lettore rimangono due alternative: o, sentendosi defraudato di qualcosa, getta via il libro imprecando contro l’autore e l’editore, oppure comincia a piegare le labbra in un sorriso di meraviglia e decide di arrendersi e di lasciarsi condurre in un’avventura che gli riserverà ben altre sorprese.

Intanto il racconto prosegue con la descrizione della vita all’interno dell’edificio in costruzione: i preparativi per la cena di Capodanno, gli ultimi acquisti al supermercato – i supermercati sono uno dei luoghi prediletti della narrativa di Aira, si pensi a Il marmo –, ma solo i bambini e i cileni (lavoratori immigrati con le loro famiglie) vedono i fantasmi, sempre sarcastici e ridanciani, invisibili per tutti gli altri. I bambini sono alle prese con i loro giochi, affidati alle cure di Patricia, una ragazza quattordicenne che vive il tumulto sessuale tipico della sua età ed è intrigata dalla presenza dei fantasmi e dai discorsi della madre sui “veri uomini”. Del resto, i fantasmi ricambiano la sua curiosità, tanto da rivolgerle la parola per invitarla alla loro festa di Capodanno.

Per tacere, ovviamente, del finale – dirò solo che io l’ho trovato agghiacciante, il punto in cui I fantasmi rientra a pieno titolo nel genere “gotico” cui rimanda fin dal titolo –, concluderò con qualche osservazione dal punto di vista del traduttore. Tradurre Aira è un compito “facile” solo in apparenza. È vero che lui ha affermato di aver scelto un linguaggio volutamente piano e semplice per non complicare troppo la vita al lettore, che già deve districarsi nelle trame spericolate delle sue novelitas, ma le “idee” che sgrana via via, spesso sul filo del paradosso, sono tutt’altro che facili da interpretare, talvolta restano un po’ enigmatiche o ambigue, il che non toglie loro un certo fascino. Nei Fantasmi, in particolare, si incontrano difficoltà di esegesi nella digressione sull’architettura, così come si presentano problemi nella presentazione della sottile dialettica argentini/cileni, con le loro diverse mentalità, usi e costumi, ecc., talvolta di non immediata comprensione per un lettore straniero. Ma lo scoglio principale consiste forse nella resa dei passi dove soffia con maggiore forza una brezza poetica, e in questo caso il traduttore, dopo aver cercato di fare del suo meglio, deve suggerire al lettore di leggersi l’originale.

 

(Pubblicato sul blog di Sur.)

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Approfondimenti

Franco Cordelli nelle sabbie mobili della letteratura messicana

Mentre era impegnato a tracciare la sua «mappa della palude» della letteratura italiana contemporanea che tante polemiche ha suscitato, il critico teatrale e scrittore Franco Cordelli ha trovato anche il tempo per fare una scorribanda nella nuova narrativa messicana e ha dato conto delle sue letture in un pezzo intitolato: «Sotto le stelle del Messico a inventare trame. E quelle di Sada sanno di trasgressione» (La Lettura del «Corriere della sera» del 18/5/14).

tapa_ebook_BELLATINDopo un paragrafo in cui percorre a volo d’uccello i nomi degli autori messicani più noti, Paz, Rulfo, Fuentes, passando per Taibo II e Mastretta, Cordelli arriva a Pitol e Pacheco, e poi ai più giovani – Villoro, Bellatin, Volpi, Herrera, Villalobos, Nettel e Monge –, di cui fornisce pedantemente le date di nascita e niente più. Per Cordelli si tratta di una «quantità impressionante», ma in effetti se ne è lasciati sfuggire un bel po’, altrimenti avrebbe senz’altro scritto esplicitamente «una quantità eccessiva». (Senza andare troppo lontano, io ho tradotto tre romanzi e due raccolte di racconti di Enrique Serna, due romanzi di Cristina Rivera Garza e un noir di Joaquín Guerrero Casasola. Inoltre sono stati tradotti Jorge Ibargüengoitia, Laura Esquivel, Carmen Boullosa, Margo Glantz, Élmer Mendoza, Valeria Luiselli, Ignacio Padilla, Rafael Bernal, e recentemente di Josefina Vicens e Juan García Ponce, e l’elenco non è affatto esaustivo.)

Pacheco (1939-2014) e Pitol (1933) finiscono poi inspiegabilmente arruolati tra i «nuovi scrittori messicani» (insieme a Yuri Herrera, Mario Bellatin e Juan Villoro) che Cordelli ha letto: «Ne ho letti cinque: cinque libri brevi. Mi hanno deluso tutti».

José Emilio Pacheco viene spacciato in tre righe che fanno dubitare fortemente che Cordelli si sia preso davvero la briga di leggerlo: «La battaglia del deserto di Pacheco è il racconto di un amore giovanile, che rimane in sospeso prima che il protagonista se ne vada a New York».

Intanto, il titolo corretto del romanzo è Le battaglie nel deserto, e Pacheco non è stato «prima poeta e poi narratore», bensì il contrario. Ma poi, si può definire «amore giovanile» quello di un bambino che frequenta le elementari per la madre di un suo compagno di scuola? Il racconto peraltro non rimane affatto «in sospeso»: Carlos bigia le lezioni per dichiararsi alla bella Mariana, ma il suo amico gli fa la spia, cosicché scoppia uno scandalo e i genitori lo portano da un sacerdote e da uno psicologo e lo ritirano dalla scuola. (Gustosissima la scena della confessione, quando il prete gli domanda se si è toccato e se c’è stato derrame.) Dopo di che Carlos viene a sapere che la donna oggetto del suo desiderio è morta suicida. E non è che «il protagonista se ne va a New York»: trattandosi di un bambino, sono i genitori a portarcelo.

Soprattutto, siamo proprio sicuri che Le battaglie nel deserto sia solo «il racconto di un amore»? Non vi ha letto Cordelli la nascita del Messico moderno e la scomparsa del paese tradizionale, l’ingresso nel mondo ipocrita degli adulti, la ricreazione di una città e di una memoria collettiva?

Diciamo le cose come stanno, e come può verificare qualsiasi lettore: Le battaglie nel deserto è un piccolo capolavoro – 67 pagine nella mia edizione messicana del 2010, la 17a –, ed è considerato tale non solo nel continente americano ma ovunque sia stato tradotto (in Russia e in Giappone, oltre che in tutti i paesi europei).

Un altro dei libri recensiti da Cordelli che Cordelli probabilmente non ha letto è Salone di bellezza di Mario Bellatin. Lo si evince scorrendo le poche righe che gli dedica: «Salone di bellezza di Bellatin racconta anch’esso una trasformazione, quella di un salone di bellezza in una specie di acquario-rifugio per alienati e malati in genere (ma confesso di non averlo capito affatto)». Alienati e malati in genere? A chiunque legga il libro dovrebbe risultare chiaro che si tratta di ammalati di Aids. Anche se Bellatin non fa mai il nome della malattia, gli elementi che offre sono inequivocabili. Cosa fa pensare invece a Cordelli che si tratti di «alienati»? E cosa sarebbe un «malato in genere», laddove si specifica che si tratta di malati terminali? Cordelli confessa di «non averlo capito affatto», ma farebbe meglio a confessare di non averlo letto. Come ha scritto con acutezza Francesca Lazzarato, per anni «nessuno si è azzardato a pubblicare un autore considerato troppo sperimentale per il nostro pubblico, nonché lontano dalle tipologie di scrittura latinoamericana tutt’ora radicate nell’immaginario dei lettori e anche in quello di molti critici».

Di La vita coniugale di Sergio Pitol e La ballata del re di denari di Yuri Herrera ci vengono offerti due tweet assolutamente neutri da Cordelli, che preferisce accanirsi invece contro Chiamate da Amsterdam di Juan Villoro («poco più che una variazione su temi esauriti perfino nel cinema»), prima di passare a spiegarci perché tutti e cinque questi libri lo hanno deluso: «Questi romanzi brevi sono deludenti per lo stesso motivo, perché sono privi di stile, ovvero sembrano scritti (per quanto si può giudicare da una traduzione) in uno stile per così dire internazionale: anonimo, anodino. C’è poi un’altra questione cruciale. Sto parlando di romanzi brevi. Ma la narratività contemporanea è tutt’altro che breve. Al contrario, è lunga, fluente, avvolgente, fatta di racconti che non finiscono mai».

Privi di stile? Uno «stile per così dire internazionale»? Ohibò. Che Sergio Pitol e José Emilio Pacheco siano privi di stile è un’affermazione talmente gratuita e spropositata che non vale la pena di commentarla.

Prendiamo invece un giovane come Yuri Herrera, autore di una trilogia (La ballata del re di denari, Segnali che precederanno la fine del mondo e La trasmigrazione dei corpi, pubblicati i primi due da La Nuova Frontiera e il terzo da Feltrinelli, tutti tradotti da Pino Cacucci) che ha suscitato il massimo interesse della critica proprio per l’assoluta originalità del linguaggio, «che parte dall’oralità messicana contemporanea per estendersi verso i territori dell’invenzione verbale, dell’accumulo e della circonlocuzione», come ha scritto Patricio Pron. E il suo approccio al narcotraffico è stato caldamente elogiato da un critico come Rafael Lemus, feroce nei confronti di tanta letteratura del Nord del Messico che ha affrontato questa tematica in modi stereotipati. Il suo linguaggio è così poco «anonimo e anodino» che il bravo Cacucci ha dovuto inserire una nota (in La trasmigrazione dei corpi) per spiegare la traduzione di Alfaqueque, reso con Mediatore: «L’autore usa un termine derivato dall’arabo e che in Spagna significava “redentore di prigionieri” […]».

Ma la vera questione cruciale, per Cordelli, quello che proprio non gli va giù, è la brevità di questi romanzi, quando, a suo dire, «la narratività contemporanea è tutt’altro che breve». Be’, dovrà farsene una ragione: nell’America di lingua spagnola, e in Messico in particolare, succede esattamente il contrario, e non da ieri. Già agli inizi del Novecento Mariano Azuela, che ci ha lasciato il più bel romanzo della Rivoluzione messicana, Los de abajo, ha scritto notevoli romanzi brevi, e così pure Amado Nervo e Xavier Villaurrutia. Negli anni Quaranta è stata la volta di Francisco Tario e di Efrén Hernández, negli anni Cinquanta di Juan José Arreola, Juan García Ponce e Ricardo Garibay.

Come ha scritto Juan José Saer nel prologo all’edizione dei romanzi brevi di Juan Carlos Onetti: «Verso il 1960, fra i narratori giovani che si lanciavano nel lavoro letterario, la forma che incarnava la massima aspirazione estetica, il modello di qualsiasi perfezione narrativa, non era né il romanzo né il racconto, ma il romanzo breve. […] il fascino che esercitava il romanzo breve decadde solo quando, a metà degli anni Sessanta, il genere “grande romanzo d’America”, patetica sovrapposizione di stereotipi latinoamericani destinata a conquistare il mercato anglosassone, piegandosi nel contenuto e nel formato alle sue norme commerciali, sloggiò dalle librerie i discreti e ammirati volumi di un centinaio di pagine circa che perpetuavano tanti capolavori». E di tutta l’opera di Carlos Fuentes non sono pochi a preferire di gran lunga la sua nouvelle fantastica Aura (appena 90 smilze paginette).

Fortunatamente, è successo che generazioni di scrittori successivi al boom degli anni Sessanta hanno poi rifiutato l’idea del narratore onnisciente, del romanzo totalizzante, dell’epopea, della saga familiare, del polpettone storico, per abbracciare l’estetica del frammento, della testimonianza individuale, del punto di vista decentrato e obliquo.

Con la loro mania della brevità, gli scrittori ispanoamericani hanno addirittura inventato un genere, leminificciones, racconti brevissimi, a volte di poche righe, il cui celeberrimo capostipite riconosciuto è «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì», del guatemalteco Augusto Monterroso.

Se poi abbandoniamo per un momento il Messico, c’è il caso eclatante dell’argentino César Aira, che dopo aver esordito alla fine degli anni Settanta con alcuni romanzi «lunghi», sulle 200 pagine, ha imboccato con decisione la strada della nouvelle, con romanzi che spesso non raggiungono le 100, al ritmo di tre-quattro l’anno; e siccome ha la vocazione del provocatore, ha pubblicato in uno stesso volume un romanzo e un racconto… dove il racconto è più lungo del romanzo.

Cordelli però, bontà sua, ha voluto dare un’altra chance alla letteratura messicana, e così si è «deciso a scegliere tra due romanzi veri e propri, due romanzi lunghi»: Non sarà la terra di Jorge Volpi eQuasi mai di Daniel Sada. Del primo nulla ci dice perché ha preferito il secondo, ma si sbarazza subito della bandella – l’accostamento a Joyce e Lezama Lima gli sembra fuori luogo, come pure il riferimento al barocco – per rivelarci che: «La cosa vera, evidente, è l’apparizione, in questo romanzo, d’uno stile personale». Finalmente! vien voglia di urlare. Quello che segue però fa cascare le braccia: «Ovviamente non del tutto personale: i primi accenni di punteggiatura (i puntini di sospensione) ci parlano di Céline; poco più avanti si capisce che il faro di Sada è però Gombrowicz, in modo inequivocabile. Per due ragioni: la presenza ossessiva dei due punti, quella degli esclamativi, la povertà di verbi: insomma uno stile nominale al massimo grado». Ora, senza imbarcarsi in una problematica definizione di che cosa sia lo stile (personalmente mi accontento di quella suggerita dal poeta cileno Enrique Lihn, secondo cui «lo stile è il vomito», tanto per chiarire che è qualcosa che viene da dentro), ridurlo a una questione di punteggiatura mi sembra una boutade di cattivo gusto.

Quanto alla tematica: «Sada ha un chiodo fisso, quello della trasgressione, e per lui, o almeno in Quasi mai, la trasgressione è tutta chiusa nel mondo della sessualità».

Ancora una volta è necessario contraddire Cordelli, e per farlo basterà confrontare i suoi giudizi con quelli di Christopher Domínguez Michael, fra i più noti critici letterari ispanoamericani, in una recensione al romanzo pubblicata nel gennaio 2009 nella rivista Letras libres: «Casi nunca è uno studio della vita di provincia e un romanzo erotico. […] Non abbondano da noi i romanzi erotici, e quelli scritti dalla generazione precedente (come quelli di Juan García Ponce) si situano sotto l’imperio della trasgressione, un’ubbidienza estranea a Sada. Sada non è sadiano: i mille e uno ritorni al coito che si verificano in Casi nunca appartengono al regno della libertà spensierata, godereccia, degli altri libertini, quelli che hanno trovato nella naturalezza del sesso, senza lasciarsi intristire dalla ruota della tortura o dal ricatto romantico, l’unica attività che giustificava la nostra breve permanenza nel mondo». E diversamente da quanto scrive Cordelli («Demetrio abbandona al suo destino la puttana Mireya per guardare alla santità del sesso attraverso il matrimonio con Renata»), così argomenta Christopher Domínguez Michael, per il quale Sada è «padrone di una prosa che lo rende il più inconfondibile dei narratori nella nostra lingua»: «Il lieto fine del romanzo sta nel trionfo della natura, diciamo così, sulla società: “il sesso-motore, il sesso-angoscia” governerà l’alcova della nuova coppia come aveva illuminato la camera del bordello».

E così, nemmeno Sada alla fine si salva dalla furia di Cordelli, perché la sua ironia, «la sua ansia d’assoluto che va a poco a poco riducendosi nell’idea del “quasi mai separati”, si trasforma, fino a dilagare, in spiritosaggine».

Ma lo sconcerto nel leggere questo pezzo di Cordelli arriva al culmine con la frase conclusiva: «Scopriamo che la bruschezza mitopoietica della partenza (una specie di scoperta del nuovo nel vecchio) stava diventando risoluzione del vecchio nel nuovo per una specie di abuso faustiano dell’elisir da Sada scovato, fino a deturparne il sembiante, nell’altrui letteratura».

Be’, se qualche anima buona volesse illuminarmi sul significato sibillino di questa frase, gliene sarei grato.

In conclusione, si apre una serie di domande che forse meritano una malinconica riflessione collettiva: è lecito scrivere un pezzo che vorrebbe essere un’analisi della recente letteratura messicana, infarcito di giudizi approssimativi e dissennati, senza conoscere la lingua né gli autori di cui si parla? Senza essere in grado di contestualizzarli? Che senso ha un’operazione del genere? Un tempo, negli anni Sessanta e Settanta, sul «Corriere della Sera» e altri quotidiani italiani, a scrivere dei «nuovi autori» ispanoamericani di allora – Neruda, Borges, Rulfo, García Márquez, Vargas Llosa, Cortázar – erano emeriti ispanisti come Dario Puccini e Federico Tentori Montalto, critici come Goffredo Fofi, scrittori come Guido Piovene, poeti come Mario Luzi e Gianni Toti. Oggi basta essere una «firma» per poter scrivere impunemente qualsiasi cordelleria? È da decenni che si scrive e si dibatte dell’inesorabile e vertiginoso declino della critica letteraria, ma qualcuno poteva immaginare una deriva simile?

 

(Pubblicato sul blog di Sur il 25 giugno 2014.)

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Approfondimenti, Azuela

Quelli di sotto (nota del traduttore)

Quelli di sotto (Los de abajo), del messicano Mariano Azuela, fu pubblicato per la prima volta nel 1915 a El Paso, Texas, dove l’autore, un medico al seguito dei rivoluzionari, si era rifugiato dopo la sconfitta delle truppe fedeli a Pancho Villa. Fu scritto in gran parte nelle soste durante una campagna militare e uscì a puntate sul quotidiano El paso del Norte, ma rimase sconosciuto fino al 1925. Considerato il romanzo iniziale del ciclo della rivoluzione messicana, è diventato un classico, è stato portato sugli schermi e tradotto un po’ ovunque. La prima traduzione italiana, di Attilio Dabini per Mondadori, risale al 1945 e risente purtroppo della mancanza di un’edizione critica dell’originale. Io ho potuto lavorare su quella curata da Jorge Ruffinelli, corredata da un ricco apparato di note e da un sostanzioso glossario che hanno facilitato la soluzione di parecchi dubbi amletici. Infatti, non è soltanto il secolo trascorso dall’uscita del romanzo a complicare la vita del traduttore, con la presenza di termini desueti o che indicano cose ormai inutilizzate da tempo, né il fatto che l’autore ricorra spesso a regionalismi. Piuttosto è problematica l’abbondanza di veri e propri localismi, sconosciuti anche ai messicani colti – espressioni oggi fortunatamente rintracciabili in rete con qualche accurata ricerca –, e soprattutto l’uso di una terminologia storico-politica molto specifica, ricca di neologismi, riferita alla fase storica attraversata dalla rivoluzione messicana.
Di grande aiuto è stata anche la consultazione della corrispondenza intercorsa fra l’autore e il suo traduttore inglese, Lawrence B. Kiddle, il quale, pur disponendo di dizionari specialistici, gli sottopose una lunga lista di termini ed espressioni di ardua interpretazione. Azuela acconsentì con estrema gentilezza riempiendo cinque fogli di risposte dettagliate, corredate persino da disegni esplicativi. Si scopre così, per esempio, che il termine latrofacciosos, ovvero ladrones-facciosos, era l’insulto riservato ai rivoluzionari da parte della stampa che sosteneva Porfirio Díaz e Victoriano Huerta, e così pure comevacas, appellativo che li denunciava come ladri di bestiame. Dal canto loro gli insorti ricorrevano contro i “federali” al termine dispregiativo mocho, nel senso di bigotti, baciapile, riferito alle concezioni religiose dei conservatori; mentre i poliziotti, nella parlata popolare, sono los cuicos. E ancora: le donne del popolo chiamavano le uova blanquillos, e una gallina che covava era echada (e non clueca).
Simili particolarità linguistiche, peraltro, di cui il romanzo è infarcito, non sono affatto gratuite né frutto di un vezzo dell’autore. Il sottotitolo della prima edizione, che costituisce un’efficace sintesi del contenuto, recitava infatti: “Quadri e scene della rivoluzione in corso”. Trattandosi di un romanzo corale che ha per protagonisti “quelli di sotto”, vale a dire gli umili, gli sfruttati, doveva ovviamente ricalcare, soprattutto nei numerosi dialoghi, lo stile della parlata popolare, con le sue tipiche deformazioni non sempre intelligibili di primo acchito. Fra i rivoluzionari però militano anche degli intellettuali, e la loro oratoria è retorica e ampollosa, così come quella di un ufficiale dell’esercito che si rivolge a un superiore, e l’ampiezza di registri stilistici del romanzo non è tra i suoi pregi minori. Il suo pregio maggiore, che ho cercato di evidenziare nella postfazione, rimane la profonda sincerità di Azuela, un idealista che non ha chiuso gli occhi di fronte agli aspetti più sgradevoli della rivoluzione e che ci ha consegnato dunque una testimonianza spassionata e un’opera niente affatto agiografica, e per ciò stesso ancora viva e capace di suscitare polemiche.

 

(Pubblicato su La Nota del Traduttore, 18 aprile 2017)

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