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Alla scoperta dell’iceberg Arlt

Bisognerà pure domandarsi prima o poi come mai la grande editoria italiana sia stata così ingenerosa o disattenta nei confronti dell’opera di Roberto Arlt: silenzio tombale sulla drammaturgia e sull’attività giornalistica1, fugaci apparizioni di una manciata di racconti2, sporadiche comparse dei romanzi: Il giocattolo rabbiosoI sette pazzi e I lanciafiamme;3 e fino a ieri nessuno si era mai accorto dell’esistenza di El amor brujo4 e non stiamo parlando di uno scrittore di “seconda fila”: per quanto discussa e perlopiù misconosciuta in passato, mentre l’autore era in vita, la figura di Arlt non ha cessato di crescere nella considerazione della critica, almeno a partire dall’appassionata difesa di Ricardo Piglia negli anni Settanta, fino alla “consacrazione” sancita da César Aira: «È il più grande romanziere argentino».5
Vorrei azzardare di sfuggita almeno due ipotesi sulla scarsa fortuna editoriale di Arlt in Italia: la sua estraneità al canone ufficiale argentino, rappresentato nella seconda metà del Novecento da Borges e Cortázar – per non parlare della sua distanza dal realismo magico –, e le sue posizioni politiche venate di individualismo anarchico, che non lo rendevano particolarmente appetibile per un’editoria di sinistra piuttosto ortodossa.

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César Aira, Come diventai monaca

In un omaggio a Herman Melville in occasione del centocinquantesimo anniversario della pubblicazione di Moby Dick, César Aira – che per molti anni ha esercitato la professione di traduttore – scriveva: «La prima frase di Moby Dick, “Call me Ismael”, è il “c’era una volta” del romanzo moderno. La tradizione popolare l’ha resa celebre come modello di incipit eloquente, insuperabile e soprattutto inimitabile. Per i traduttori di Melville quella frase iniziale è un eterno problema. C’è chi ha detto che gli è costata più lavoro di tutto il resto, che non è poco. È uno di quei casi in cui manca il contesto, e nel contempo ce n’è fin troppo». Sulla scia di alcune acute osservazioni condotte sul filo del paradosso, Aira alla fine proponeva di tradurre così: «Mi viene in mente un’altra soluzione, talmente ovvia in realtà che non mi stupirei se qualcun altro l’avesse già proposta: “Potete darmi del tu”, o “Puoi darmi del tu”».

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César Aira e la traduzione

Forse non tutti sanno che per trent’anni César Aira ha esercitato il mestiere di traduttore. Da ben quattro lingue: francese, inglese, italiano e tedesco. Ancor più sorprendente, forse, il fatto che abbia affrontato questo impegno da autodidatta. Nel corso del tempo, in diverse interviste ha poi rilasciato dichiarazioni su questo aspetto della sua biografia. Ho provato a riunirne alcune delle più significative, e nella seconda parte di questa nota troverete un’ampia selezione. Prima però vale la pena accennare all’importanza che assume il tema della traduzione nei suoi romanzi. Del resto, non poteva essere diversamente, in un autore che confessa di scrivere prendendo spunto da ciò che gli  capita giorno per giorno. La particolare concezione della traduzione di Aira – non equivalenza, ma trasformazione – permetterà anche di contestualizzare certe sue affermazioni assai poco ortodosse, al limite della provocazione intellettuale.

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Roberto Arlt, quello strano animale idiomatico

«Tutti gli scrittori che amiamo sembrano scrivere in una lingua straniera», parole di Proust che César Aira commenta così: «Credo che il senso della frase sia che, in realtà, ogni scrittore inventa una lingua straniera, che è il suo stile». Ecco dunque un buon motivo per amare Roberto Arlt, che in effetti scriveva in una lingua straniera, quella imparata in casa da bambino, dove né l’odiato padre prussiano né l’ipersensibile madre di origini italiane parlavano con scioltezza lo spagnolo.
Una lingua che era anche quella dei suoi compagni di disavventure – raccontate dal protagonista del suo primo romanzo, Il giocattolo rabbioso –, fatta di prestiti lessicali dall’italiano, ma soprattutto dai vari dialetti della penisola, dato che ben pochi dei numerosissimi emigrati italiani a Buenos Aires erano scolarizzati. Così troviamo termini come malandrinostrunssobagazza, e nelle sue cronache giornalistiche, le Aguafuertes de Buenos Aires, Arlt scrive a più riprese sull’origine italiana di diverse parole: furboberretínsquenun (per quest’ultima chiama in causa nientemeno che Dante). Non mancano nemmeno i francesismi; nei Lanciafiamme troviamo: mansardapoilus (per soldato semplice), e una puttana si rivolge al Ruffiano Melanconico con questa ingiuria: «Nom de Dieu, va t’en te faire enculer».

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Postfazione a Scrittore fallito

Roberto Arlt si vantava di aver venduto il suo primo racconto a otto anni, a un «distinto signore» del quartiere di Flores conosciuto in libreria, il quale gli aveva promesso in cambio una ricompensa ed era poi rimasto talmente impressionato da regalargli cinque pesos: «Quello è stato il primo denaro che ho guadagnato con la letteratura».
Di certo nell’insieme della sua opera la scrittura di racconti, insieme all’attività giornalistica, è stata di gran lunga l’attività più costante e feconda, ma rimane anche quella meno conosciuta e studiata, in patria e fuori. Finora ne sono stati rintracciati più di settanta, di cui solo ventiquattro erano stati riuniti in volume dall’autore: nove in El jorobadito e quindici in El criador de gorilas.

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