Nel 2002, per la stessa casa editrice che ha meritoriamente intrapreso il progetto editoriale di una nuova traduzione di El Señor Presidente, avevo tradotto un libriccino della scrittrice guatemalteca Eugenia Gallardo (Non affrettarti a raggiungere la Torre di Londra perché la Torre di Londra non è il Big Ben. Almanacco di 52 settimane con una favola per settimana), e nella postfazione, rendendo conto dei debiti dell’autrice nei confronti della tradizione letteraria del suo paese – in particolare verso Augusto Monterroso e Miguel Ángel Asturias, – avevo accennato appunto a El Señor Presidente, romanzo straordinario, un capolavoro ormai introvabile da molti anni nelle librerie e relegato negli scaffali di qualche biblioteca universitaria. La prima edizione italiana risale al 1968, poi ci furono varie ristampe negli anni Settanta e infine cadde nel dimenticatoio. Così come il suo autore, del quale purtroppo bisogna dire che non ha avuto negli ultimi decenni una grande fortuna editoriale in Italia.
Qualche anno dopo, quando ho ricevuto dalla casa editrice Fahrenheit 451 la proposta di tradurre il romanzo di Asturias, mi sono messo le mani nei capelli perché ricordavo che la lettura del testo originale mi era costata moltissima fatica per la comprensione. Mi ero aiutato all’epoca con la versione francese di Georges Pillement, che di Asturias era amico, quindi la sua traduzione era in un certo senso «autorizzata» e aveva l’approvazione dell’autore, però l’idea di impegnarmi in un lavoro che nella breve postfazione ho definito «votato allo scacco in partenza» mi preoccupava non poco. Perciò mi ci sono volute approfondite riflessioni prima di decidere di accettare. Intanto era stata pubblicata l’edizione critica dell’opera a cura di Gerald Martin nel 2000. Il 1999, come forse sapete, era il centenario della nascita dell’autore e in quell’occasione fu commissionata quest’opera. L’edizione critica riporta circa 500 note al testo, oltre a un glossario ricchissimo che in vari punti corregge quello allegato all’edizione Losada, e con la promessa della scrittrice guatemalteca Eugenia Gallardo di rispondere a tutte le mie email (svariate decine) per chiarirmi dubi e incomprensioni, alla fine ho accettato l’incarico.
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Miguel Ángel Asturias, Il Signor Presidente (Nota del traduttore)
Per la traduzione di El Señor Presidente mi sono avvalso dell’edizione critica pubblicata nel 2000, in occasione del centenario della nascita dell’autore, dal Fondo de Cultura Economica de México, a cura di Gerald Martin. Il testo, che reca le varianti delle prime edizioni, è corredato da quasi 500 note e da un ricco glossario di termini guatemaltechi – apparati imprescindibili per un’effettiva comprensione dell’opera –, da una cronologia della vita dell’autore e da una storia della redazione del romanzo, ed è completato da numerosi saggi dei principali studiosi dell’opera di Asturias a livello internazionale.
Sono ricorso inoltre al prezioso aiuto dell’amica Eugenia Gallardo, una scrittrice guatemalteca a cui va la mia profonda gratitudine per la pazienza con cui ha sciolto tutti i dubbi di interpretazione che mi si presentavano.
Per non appesantire la scorrevolezza della lettura, ho limitato al massimo il numero delle note, segnalando soltanto ciò che mi sembrava decisivo per la comprensione del testo. Lo stesso criterio ho adottato per compilare il breve glossario.
Il saggio di Miguel Ángel Asturias che chiude il volume costituisce di per sé un commento più che esaustivo; per un approfondimento della sua opera è d’obbligo il rimando agli scritti del professor Giuseppe Bellini (in particolare: La narrativa di Miguel Ángel Asturias, Milano 1966, e Il mondo allucinante: da Asturias a García Márquez. Studi sul romanzo ispano-americano della dittatura, Milano (1976).
La carne non è indifferente (Su Il deserto di Jorge Baron Biza)
Lungo la strada fra Alta Gracia e Córdoba sorge un singolare mausoleo a forma d’ala di aereo di 82 metri d’altezza, in marmo e granito. Nella cripta giacciono i resti di Myriam Stefford, morta a 26 anni in un incidente a bordo dell’aereo che pilotava. Inaugurato nel 1935, il monumento è un omaggio del marito, il latifondista argentino Raúl Barón Biza. Vuole la leggenda che, insieme alle spoglie dell’amata, nelle fondamenta in cemento armato siano seppelliti i suoi gioielli, fra cui un diamante di 45 carati. I due, che si erano conosciuti nel 1928 a Venezia, si sposarono due anni dopo nella basilica di san Marco. Lei, un’attricetta svizzera di origini italiane, era fuggita di casa a quindici anni con il sogno di far carriera nel cinema; lui aveva passato la giovinezza nella Parigi della Belle Époque e si dedicava a scrivere e a girare il mondo. Per un paio d’anni condussero un’esistenza hollywoodiana: sci a St. Moritz, bagni in Costa Azzurra, lunghi soggiorni a Capri, passeggiate sui viali berlinesi con un leopardo ammaestrato al guinzaglio; insomma, una coppia ideale per i tabloid.
Uno de Malditos di Leila Guerrero: Jorge Baron Biza
Nel volume collettivo curato da Leila Guerrero, Los malditos (Edizioni dell’Universidad Diego Portales), c’è un saggio di Alan Pauls dedicato allo scrittore argentino Jorge Barón Biza e al suo unico romanzo El desierto y su semilla.
(Ora figura in calce all’edizione italiana del libro, Il deserto, tr. di Gina Maneri, La Nuova Frontiera 2016.)
Leila Guerrero è una giornalista e scrittrice argentina abbastanza conosciuta in Italia (Suicidi in capo al mondo, Marcos y Marcos), dove è stata ospite l’anno scorso del festival di «Internazionale» a Ferrara. Il tema dei suicidi e dei cosiddetti «autori maledetti» deve starle particolarmente a cuore, se ha ideato questa indagine letteraria su scrittori e scrittrici latinoamericani che hanno sofferto, come ha dichiarato in un’intervista, «di un tormento interiore, che hanno vissuto alle intemperie, esseri troppo fragili per risolvere problemi che ad altri non costano tanta fatica, con una coscienza molto tormentata, una sensibilità esacerbata, persone sopravvissute a se stesse».
Io scrivo per essere felice
Nel suo recente Diccionario de autores latinoamericanos, frutto del lavoro di quindici anni, César Aira, il più prolifico e sorprendente scrittore argentino, non ha esitazioni e non ricorre nemmeno a una stilla d’enfasi nel definire Roberto Arlt, classe 1900, “il più grande romanziere argentino”. Del resto non è l’unico a pensarla così: prima di lui si erano dichiarati entusiasti ammiratori dell’opera di Arlt scrittori della statura di Juan Carlos Onetti, Julio Cortázar e Manuel Puig. Onetti, che gli era forse più affine per tematiche, ci ha lasciato questa enigmatica definizione dell’uomo: “Non so se sia stato un angelo, un figlio di puttana o un commediante, forse le tre cose insieme”. Cortázar dal canto suo, nella prefazione all’edizione delle Obras completas del suo connazionale, intimidito dal compito, annotava: “Se potesse leggere queste righe, Arlt mi spaccherebbe la faccia”. A testimoniare la persistenza di Arlt nelle lettere argentine, Ricardo Piglia, nel romanzo Respirazione artificiale(pubblicato da Serra e Riva, traduzione di Gianni Guadalupi), ne segnala l’importanza in un lungo capitolo dedicato al linguaggio letterario e sottolinea il passo decisivo da lui compiuto nel superare il baratro fra la lingua parlata e quella scritta: “Non c’è nulla che somigli allo stile di Arlt; non c’è nulla di altrettanto trasgressivo dello stile di Roberto Arlt”.