Nei primi anni Settanta la letteratura colombiana sembrava riassumersi in modo esemplare in un unico nome, universalmente noto: Gabriel García Márquez, e nella corrente del «realismo magico». Solo «pochi buoni amici», come recita il titolo del film-documentario del regista Luis Ospina, conoscevano allora gli scritti di Andrés Caicedo, il quale del resto non fece granché per conquistare la fama, poiché si suicidò a soli 26 anni, il 4 marzo 1977, il giorno dopo la pubblicazione del suo romanzo Viva la musica! Il libro a poco a poco divenne un cult, ebbe varie edizioni e cominciò a filtrare fuori dei confini della Colombia. (In Italia uscì tempestivamente per Sugarco.) Di recente lo scrittore cileno Alberto Fuguet, che nel 1996 pubblicò l’antologia-manifesto McOndo – la prima levata di scudi dei giovani scrittori latinoamericani contro la tradizione del realismo magico in nome di una narrativa urbana –, ha riscoperto l’opera di Caicedo, coniando per lui la definizione di «Kurt Cobain della letteratura colombiana».
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Approfondimenti
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Un ritratto del Gran Cronopio
“La verità, la triste o gioiosa verità, è che mi piacciono sempre meno i romanzi, la narrativa come si pratica di questi tempi. Quello che sto scrivendo adesso (se un giorno o l’altro lo finirò) sarà qualcosa come un anti-romanzo.” Così Julio Cortázar in una lettera a un amico. Il libro, Rayuela, sarebbe uscito tre anni dopo, nel 1962 (Il gioco del mondo nella traduzione italiana di Flaviarosa Nicoletti Rossini del 1969). Sulla copertina, disegnata dall’autore, l’illustrazione del gioco infantile cui allude il titolo: un rettangolo tracciato per terra e diviso in sei caselle che bisogna occupare, saltellando su una gamba dopo avervi gettato un sasso, per raggiungere il traguardo del Cielo. (Rivelatore il titolo primitivo che Cortázar poi cambiò, giudicandolo “un po’ pedante”: Mandala.) Subito baciato dal successo e tradotto in varie lingue, entrò di prepotenza nel ristretto numero di opere – Cent’anni di solitudine in testa – che a partire dalla fine degli anni Sessanta hanno forgiato l’idea che ci si è fatti in Europa della letteratura latinoamericana, a controbilanciare l’impressione che tutto quanto proveniva di lì fosse sotto il segno del barocco e del realismo magico.
I lipogrammi di Oscar de la Borbolla
1.
Il lipogramma è un testo – poetico o in prosa – nel quale è stata deliberatamente omessa una lettera, o un gruppo di lettere, e di conseguenza tutte le parole che la contengono. Si tratta dunque di un’arbitraria scelta formale, e tale limitazione autoimposta può assumere un carattere particolarmente stringente quando la lettera scartata ricorre con frequenza nel lessico di una lingua. I dizionari classificano i lipogrammi come “artifici” o “esercizi” retorici e li ricomprendono sotto la categoria più generale dei “giochi di parole”. Le enciclopedie, dal canto loro, sono relativamente ricche di esempi che risalgono fino all’Antichità classica e non conoscono frontiere. Si menzionano infatti, fra l’altro, due 57riscritture lipogrammatiche (andate perdute) dell’Iliade e dell’Odissea, rispettivamente del III e del V secolo d.C., L’R sbandita sopra la potenza d’amore, poema di Vincenzo Ciminello Cardone, domenicano italiano del XV secolo, una raccolta di novelle del 1641, Varios effetos de amor en cinco novelas exemplares, dello spagnolo Alonso de Alcalá y Herrera, con l’omissione in ciascuna di una vocale, l’intera opera del poeta romantico tedesco Gottlob Burmann, da cui è assente la lettera R, il Voyage autour du monde sans la lettre A del francese Jacques Arago, del 1853, eccetera. Nell’America di lingua spagnola si può ricordare un racconto giovanile di Rubén Darío, “Amar hasta fracasar”,1 che prescinde da tutte le vocali eccetto la A. In ogni caso è nel Novecento che si assiste agli esperimenti più arditi, supportati da pregevoli sforzi di sistemazione teorica, segnatamente in Francia da parte del gruppo dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle), con svariati contributi di alcuni dei suoi più importanti animatori: Italo Calvino, Raymond Queneau e soprattutto Georges Perec. Calvino ci ha lasciato un lipogramma che si potrebbe definire “vocalico progressivo”:
Roberto Bolaño, Uno scrittore di razza
Lavapiatti, guardia notturna, spazzino, scaricatore di porto, commerciante di bigiotteria… un curriculum di tutto rispetto per uno scrittore di razza. Se ci aggiungiamo la condizione di esule, una spiccata propensione al nomadismo e alla polemica e il vizio di far man bassa di premi e giudizi superlativi della critica, si comincia a intravedere qualche caratteristica di Roberto Bolaño.
Cileno di nascita, quindicenne si trasferisce in Messico per seguire la famiglia. Quando torna in Cile nel 1973 ha vent’anni, è un militante trozkista e vuole “dare una mano a Allende” , ma non si è ancora ambientato che entra in scena Pinochet. Lo scambiano per un terrorista messicano, lo arrestano e le cose si stanno mettendo male quando viene riconosciuto da due vecchi compagni di scuola che ne ottengono il rilascio (l’episodio è rievocato nel racconto “I detective”, in Chiamate telefoniche). Tornato in Messico, si guadagna da vivere scrivendo per giornali e riviste e si arrende alla passione della sua vita: la letteratura. Sono gli anni tumultuosi della “poesia viscerale” d’ispirazione rimbaudiana che rievocherà nei Detectives selvaggi, di cui si attende la pubblicazione presso Sellerio. Questo romanzo fiume è stato paragonato per importanza nientemeno che a Rayuela di Julio Cortazar (che da tempo reclama una nuova edizione urlando e scalciando in un cassetto della casa editrice Einaudi ) e agli altri capolavori del boom latinoamericano. Per lo scrittore messicano Juan Villoro si tratta delle “Mille e una notte di una generazione dedita ai paradisi artificiali e alla tequila”; secondo una più modesta definizione dell’autore è: “un romanzo d’avventura con sesso, droga e rock and roll” che narra le vicende di una generazione che “pretendeva di fare la rivoluzione armata, e ci è andata com’è andata; peggio, era impossibile”.
Aprite le prigioni, congedate l’esercito! (Profilo di Antonin Artaud)
Poeta, scrittore, attore teatrale e cinematografico e uomo di teatro nel senso più ampio del termine (teorico, drammaturgo, regista, scenografo, costumista), indubbiamente Antonin Artaud è stato tutto questo, per i contemporanei e le enciclopedie a venire. Eppure, con ciò non si è detto niente, anzi, si rischia di farlo rivoltare nella tomba: «Chi mi opprime di lettere d’elogi si pulisca su di me nei gabinetti, che sono il solo posto in cui l’io si medita e si confessa veramente per quel che è». I saccenti, del resto, hanno dichiarato fallimentari tutti i suoi tentativi in ogni campo, e molti avranno persino considerato nell’ordine delle cose il suo internamento in un manicomio. Li aveva prevenuti: «Ma da quale sudicia puttana d’imbecillità radicata mi sono sentito dire un giorno che se il conte di Lautréamont non fosse morto a ventiquattro anni, all’inizio della sua esistenza, sarebbe stato internato anche lui, come Nietzsche, Van Gogh o il povero Gérard de Nerval?». (Questi nomi, insieme a quelli di Baudelaire, Rimbaud e Poe, costituiscono per Artaud una comunità elettiva di individui che avevano subito come lui l’ostracismo sociale.)