Laiseca, Laiseca traduzioni, Traduzioni

I nemici di stanza

Quando Personaggio Iseka aprì gli occhi quella mattina, la prima cosa che vide fu un Soria. Ma non Luis, quello che aveva vicino, bensì il più lontano: Juan Carlos Soria. «Questo Soria, quando si alza la mattina», pensò Iseka «lo fa alla maniera di una lezione magistrale, senza discussione, come si usava nelle facoltà in passato. Ottimista d’un balzo. Io no. Indugio per tutti i minuti che posso: pelandronissimo a letto. «Tutta l’inerzia necessaria per cominciare la giornata, lui la posticipa. A mo’ di tromba e musica utilizza, rispettivamente, lo yoghurt e la respirazione. È soltanto quando si sveglia dalla siesta che ci delude. Si è costruito una specie di fascia abbassabile, di carta, per far sì che la luce non gli impedisca di dormire. Dicevo che dopo la siesta delude. Infatti: non si alza più d’un balzo; in quel momento, invece, con il suo tappaocchi sui capelli di stoppa somiglia a un cacicco toba sconfitto e avviato alla conversione o a una riserva. «Lui mi dà consigli».

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Gardini, Gardini traduzioni, Traduzioni

La fortezza della solitudine

Quell’estate ebbe i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Nella casa che avevamo preso in affitto papà poteva fare il barbecue più frequentemente, però cenavamo fuori meno spesso, e in quel paese quasi non c’era dove cenare fuori. Non c’erano videogames né biciclette a noleggio, né tante gelaterie, né ragazze che regalavano campioni di creme o abbronzanti, ma era tutto più economico e tranquillo, e la mamma diceva che papà aveva bisogno di riposare sul serio e che non potevamo spendere molto.
La spiaggia era un deserto immenso. Nessuno ti calpestava o ti riempiva di sabbia, non ti piantavano gli ombrelloni vicino, e si poteva giocare a pallone, anche se quasi sempre dovevo giocare da solo. A papà e mamma non piaceva andare alla spiaggia tutti i giorni, ma in quel posto mi lasciavano andare da solo e io potevo esplorare a mio piacimento, con la cartella in spalla, quel poco che c’era da esplorare.

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Horacio Castellanos Moya, La serva e il lottatore

La serva e il lottatore, di Horacio Castellanos Moya (trad. di Enrica Budetta, Rizzoli, 252 pagg., 18 euro) appartiene a un gruppo di quattro romanzi – l’autore non ama la definizione di “saga” –, pubblicati fra il 2004 e il 2011, che ruotano intorno all’epopea della famiglia Aragón e inquadrano alcuni momenti cruciali della storia di El Salvador, come la sollevazione popolare contro il regime del dittatore Maximiliano Hernández Martínez del 1944 o la breve e cruenta guerra con l’Honduras del 1969. La trama si sviluppa nel giro di pochi giorni del 1980, alla vigilia dell’assassinio dell’arcivescovo Óscar Romero e dello scoppio della guerra civile che insanguinerà il paese fino al 1992, con oltre 80.000 vittime, opponendo i guerriglieri del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (Fmnl) a una serie di governi guidati da militari con l’attivo sostegno di Ronald Reagan e degli Stati Uniti. Divennero tristemente famosi gli squadroni della morte, che fecero scomparire migliaia di militanti di sinistra, e proprio un ex membro di questi gruppi paramilitari, Robocop, è il protagonista dell’unico romanzo di Castellanos Moya tradotto finora in Italia, L’uomo arma (La Nuova Frontiera, 2006): dopo la smobilitazione, diventa un delinquente comune. E non si è trattato di “casi isolati”: basti pensare che la Mara Salvatrucha – una delle bande più numerose, ramificate e crudeli della delinquenza organizzata che infesta il Centroamerica, alcuni Stati occidentali degli Usa e il Canada – è nata a Los Angeles proprio da espatriati salvadoregni.

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Mastro Pérez l’organista

di Gustavo Adolfo Bécquer

Ho sentito raccontare questa leggenda a Siviglia da una perpetua nell’atrio del convento di Santa Inés, mentre aspettavo che cominciasse la messa di mezzanotte. 

Naturalmente, dopo averla ascoltata, attendevo con impazienza l’inizio della cerimonia, ansioso di assistere a un avvenimento prodigioso. 

Invece, niente di meno prodigioso dell’organo di Santa Inés, e niente di più triviale degli insulsi inni che l’organista ci offrì quella notte. 

Uscendo dalla messa, non potei fare a meno di dire alla perpetua in tono ironico: 

«Come mai ora l’organo di mastro Pérez suona così male?»

«Toh!» rispose la vecchia. «Perché non è il suo.» 

«Non è il suo? E quello che fine ha fatto?» 

«È andato in pezzi per la vecchiaia, un bel po’ di anni fa.» 

«E l’anima dell’organista?» 

«Non è più riapparsa dopo che ci hanno messo quello che lo sostituisce.» 

Se a qualcuno dei miei lettori, dopo aver letto questa storia, venisse in mente di rivolgermi la stessa domanda, già sa perché il prodigio miracoloso non è continuato fino ai nostri giorni. 

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Xaimaca di Ricardo Güiraldes

Postfazione

Come si potrebbe classificare il libro che il lettore ha fra le mani? “Romanzo” è forse una definizione troppo impegnativa, e non ci si riferisce alla sua brevità: abbiamo tre soli personaggi, una trama esile, e gli aneddoti evocati, niente affatto straordinari, sono piegati all’esigenza suprema della creazione di un’atmosfera, piuttosto che a un vero e proprio sviluppo narrativo. Allora, è il racconto diaristico di un viaggio? In effetti, così si presenta a un primo sguardo: non mancano le date, la menzione dei porti di scalo, la descrizione dei mutamenti del paesaggio, la notazione della diversità dei tipi umani incontrati lungo la rotta; ma tutti questi dettagli, in fondo, costituiscono solo il contrappunto dei cambiamenti d’umore e delle sensazioni di Marcos, la voce narrante. Non si tratterà invece del puntuale resoconto, dapprima vagamente svogliato e perplesso e poi sempre più ispirato e convinto, di un innamoramento (o di una fatale infatuazione)? O dobbiamo piuttosto pensare di aver letto una miscellanea di note sparse, una collezione di istantanee dal sapore vagamente esotico, le spensierate digressioni di un bon vivant cosmopolita, legate da un sottilissimo filo narrativo?

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