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José Emilio Pacheco, Un falso d’autore

Celebre nel mondo nelle vesti di poeta pluripremiato, José Emilio Pacheco (199-2014) è conosciuto da noi presso il grande pubblico più che altro come romanziere (Le battaglie nel deserto, tr. di Pino Cacucci, La Nuova Frontiera 2012) e autore di racconti (Il vento distante, e Il principio del piacere, Edizioni Sur 2014 e 2015 rispettivamente, nella mia traduzione). Pacheco però si è disimpegnato con straordinaria bravura per decenni anche come saggista e giornalista culturale, soprattutto con la rubrica “Inventario”, nel supplemento di Excelsior, e poi sulla rivista Proceso. (Per chi conosce lo spagnolo, qui si possono leggere alcuni di questi interventi: http://www.proceso.com.mx/author/jepacheco, fra cui articoli dedicati a Carlos Fuentes, Sergio Pitol, Albert Camus, Charles Dickens e Antonio Tabucchi.)

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Aira dizionario, César Aira

Aira su Virgilio Piñera

Virgilio Piñera nacque a Cárdenas, Matanzas (Cuba) nel 1912, figlio di un agrimensore e di una maestra. La sua famiglia visse a Guanabacoa e Camagüey, sempre in difficili condizioni economiche. Nel 1940 Piñera iniziò gli studi di Lettere e Filosofia all’Avana (la sua tesi di laurea, mai presentata, era su Gertrude Gómez de Avellaneda). Nel 1941 pubblicò il suo primo libro, di poesia, Las furias. Dello stesso anno è la sua prima opera teatrale, Electra Garrigó, un’anticipazione del “teatro dell’assurdo” nonché uno dei suoi migliori lavori. (La ARTYC, Agrupación de Redactores Teatrales y Cinematográficos la mise all’indice e per parecchi anni non venne più messa in scena.) In quel periodo cominciò anche a collaborare alla rivista Orígenes. Nel 1943 pubblicò La isla en peso, lunga e straordinaria poesia i cui versi iniziali, “La maledetta circostanza dell’acqua da ogni parte / mi obbliga a sedermi al tavolo del caffè”, danno un’idea compiuta dell’atmosfera di tutta la sua opera. Il suo perfetto oppositore all’interno del gruppo di Orígenes, di cui Piñera in realtà non fece parte, il cattolico e lirico Cintio Vitier, lo descrisse come “poeta freddo della desolazione fisica e dalle nefaste meditazioni”, che, tolta l’antipatia che trasmette, è una buona definizione. Nei volumi El conflicto (1942) e Poesía y prosa (1944) comparvero i suoi primi racconti. El secreto de Kafka (1945) è di carattere saggistico (Piñera non riunì mai in volume i suoi numerosi ed eccellenti saggi e articoli).

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Approfondimenti, Azuela, Azuela approfondimenti

Mariano Azuela, La rivoluzione è un uragano

«…e l’uomo che vi aderisce non è più un uomo, ma una misera foglia secca in balia della forza del vento…»

 

 

La prima edizione di Quelli di sotto – assai diversa da quella definitiva – recava il significativo sottotitolo «Quadri e scene della rivoluzione in corso» e uscì a puntate nel 1915 sul quotidiano El Paso del Norte, in Texas, dove l’autore, un medico al seguito delle truppe rivoluzionarie, si era rifugiato dopo la grave sconfitta subita da Pancho Villa a Celaya nell’aprile di quell’anno.

Il romanzo però rimase quasi sconosciuto fino al 1925, quando fu ripubblicato nel supplemento domenicale del quotidiano El Universal Ilustrado, innescando subito una polemica politica ed estetica. Inaugurava un ciclo sulla Rivoluzione messicana di cui vale la pena menzionare altri due romanzi coevi di un certo valore letterario, accomunati dal carattere episodico e scritti da chi aveva partecipato in prima persona ai fatti narrati: El águila y la serpiente di Martín Luis Guzmán, e Ulises criollo di José Vasconcelos. Il filone proseguirà più tardi con meditate e ben strutturate narrazioni di Juan Rulfo, Carlos Fuentes, Elena Poniatowska e tanti altri, nelle quali diventano preponderanti il distanziamento critico e l’interpretazione in sede storica di quel lungo e caotico processo che chiamiamo Rivoluzione messicana.

Già nel 1929 Quelli di sotto veniva pubblicato in inglese con il titolo The Underdogs, e nell’epistolario di Azuela figurano ampi scambi con il traduttore, Lawrence B. Kiddle, in difficoltà con i numerosi termini regionali; l’opera uscì anche in Francia nel 1930 e in Italia nel 1945 presso Mondadori. E presto iniziò la sua fortuna critica, insieme alle diatribe sulle posizioni politiche dell’autore, accusato da alcuni di aver dipinto un quadro troppo pessimistico («nichilista») degli esiti del processo rivoluzionario.

Mariano Azuela (1873-1952) era medico chirurgo e praticava la professione, ma iniziò a pubblicare narrativa nel 1907. Arriverà a scrivere venticinque romanzi, fra i quali spiccano Las moscas e Los caciques, raccolti insieme a un’altra decina di autori minori nei due volumi antologici La novela de la revolución mexicana, del 1960. Coltivò costantemente la vocazione scrivendo anche racconti, testi drammaturgici – fra cui una trasposizione per le scene di Quelli di sotto – e saggi di critica letteraria, e ottenne importanti riconoscimenti, compreso il Premio Nazionale per la Letteratura nel 1949, e incarichi prestigiosi in campo culturale.

Allo scoppio della rivoluzione nel 1910 venne perseguitato in quanto nemico del governo di Porfirio Díaz, delle cui truppe, «i federali», ci offre gustose e impietose descrizioni nel romanzo, e fu un entusiasta seguace di Francisco Madero, che vedeva come un idealista «puro».

Dopo il suo assassinio, si schierò contro l’usurpatore Huerta e, quando questi dovette prendere la via dell’esilio, Azuela scelse una delle fazioni in cui si divisero i costituzionalisti, quella di Pancho Villa. Nell’ottobre del 1914 si unì agli «autentici rivoluzionari», già con il fermo proposito di trarne ispirazione per scrivere un romanzo.

Quelli di sotto infatti fu scritto in gran parte nelle pause tra una marcia forzata e uno scontro con le truppe nemiche, e si presenta dunque come una sorta di cronaca testimoniale. Secondo una dichiarazione dello stesso Azuela: «…inseguiti dai seguaci di Carranza, passando da una sconfitta all’altra, un bel giorno mi ritrovai negli Stati Uniti con un mucchio di fogli sotto la camicia. Due terzi del romanzo erano già scritti e lo completai nella tipografia di El Paso del Norte».

Nel corso del tempo la critica ha sottolineato la centralità di alcune tematiche archetipiche: quella della violenza, anzitutto, che non risparmia nessuno meritandosi spesso l’aggettivo «cieca», e che viene declinata nei suoi aspetti tragici ma anche con sfumature di humour nero; e quella della morte, temuta da alcuni e affrontata in modo sprezzante da altri. Anche la natura e il paesaggio, che riflettono sempre le passioni e i sentimenti umani, hanno un ruolo nell’economia generale del romanzo: le scarne descrizioni dell’ambiente in cui si muovono i guerriglieri si colorano di tratti lirici e mitologici: «Dalla sommità della collina si vedeva un versante della Bufa, con il suo crinale simile alla testa coperta di piume di un superbo re azteco».

I personaggi, molti dei quali prendono a modello guerriglieri che l’autore ebbe modo di osservare e frequentare – in particolare, il generale Julián Medina, che contribuirà a definire alcune caratteristiche di Demetrio Macías –, sono talmente vividi e convincenti che finiscono per assurgere a figure rappresentative e simboliche. E alla fine la cronaca travalica i suoi confini e sfocia in una vera e propria epopea nazionale: l’ingresso nella vita politica del paese di masse di pezzenti: «quelli di sotto», appunto. Come Azuela scrive in Las moscas: «Nei nostri bassifondi ci sono torrenti d’ispirazione per la nascente letteratura nazionale».

Carlos Fuentes ha coniato per il romanzo la definizione di «Iliade scalza» (ma si può pensare anche all’Odissea, secondo lo schema fuga-peripezie-ritorno al focolare domestico), e ne ha messo in luce la «natura anfibia, di epica violata dal romanzo, di romanzo violato dalla cronaca, testo ambiguo e inquietante che nuota nelle acque di molti generi». Tuttavia, ha notato altresì che l’epica di Quelli di sotto si degrada rapidamente: Pancho Villa, che compare solo nei discorsi dei suoi seguaci, è nientemeno che «il Napoleone messicano […] l’aquila azteca che ha conficcato il suo becco d’acciaio nella testa della vipera Victoriano Huerta», ma l’altisonante definizione lascia trasparire una certa ironia.

L’epica in effetti ha bisogno di eroi a tuttotondo, di cui però nel romanzo non c’è traccia, e di un rigoroso codice di valori, che scarseggiano fra una truppa di energumeni spesso incuranti dei più elementari principi di giustizia e umanità. Nemmeno Demetrio (nome che rimanda alla «madre terra» e alla dea dell’agricoltura), protagonista di un racconto che resta comunque corale, è senza macchia, malgrado il suo coraggio e il carisma che esercita sui suoi uomini. La sua ribellione, in buona parte inconsapevole, esplode solo quando i soldati governativi gli bruciano la casa (proprio come succede al gaucho Martín Fierro), e si configura più che altro come una vendetta personale nei confronti del cacicco che gli rendeva difficile la vita. Nonostante l’amore dichiarato per la moglie, Demetrio non si sottrae al fascino delle donne che incontra sulla sua strada, dall’ingenua Camila alla promiscua Truccata, personaggio che Azuela dichiarò di aver tratto pari pari dalla realtà; a questo proposito basterà ricordare che Pancho Villa ebbe innumerevoli mogli: ventitré, trentacinque o più di settanta, secondo le diverse fonti, e che le soldaderas, le donne che seguivano gli spostamenti dei guerriglieri, furono figure caratteristiche della rivoluzione messicana, immortalate in centinaia di foto, e ispirarono celeberrime canzoni, come La Adelita citata nel romanzo.

Non sono certo eroi neppure il «signorino» Luis Cervantes, personaggio totalmente inventato, un voltagabbana che sposa la causa dei ribelli soltanto quando la ritiene vincente e, malgrado gli enfatici discorsi impregnati di retorica rivoluzionaria, rimane uno squallido arrivista, né l’idealista disilluso Alberto Solís, forse l’unico per il quale Azuela sembra provare una certa simpatia, che per esprimere tutto il suo disincanto cita una poesia di Juan Ramón Jiménez: «Mi ero immaginato un prato fiorito in fondo alla strada… E ho trovato un pantano». E la fulminante battuta di un ufficiale in risposta alle parole del pazzo Valderrama, che esaltava i martiri, i sognatori, «gli unici buoni»: «Solo perché non hanno avuto il tempo di diventare cattivi», è l’amara conclusione cui forse arrivò anche Azuela.

Oltre a non figurare in alcun modo nel romanzo, caso raro fra gli scrittori che parteciparono al movimento rivoluzionario, Azuela non ci ha lasciato un testo propagandistico o didattico, non ha idealizzato la rivoluzione che pure aveva suscitato il suo entusiasmo, e la dipinge con tutte le sue ombre. Ecco perché Quelli di sotto è diventato un classico, ovvero un libro che possiamo leggere ancor oggi con interesse e con profitto. Di questo Azuela era ben consapevole, quando esordì con queste parole a una conferenza tenuta al Colegio Nacional nel 1945: «Devo al mio romanzo una delle soddisfazioni più grandi avute nella mia vita di scrittore. Il celebre romanziere francese Henri Barbusse, noto comunista, l’ha fatto tradurre e pubblicare sulla rivista Monde, di Parigi, da lui diretta. L’Action Française, organo dei monarchici e dell’estrema destra francese, ha accolto il mio romanzo con elogi. Ciò è molto significativo per uno scrittore indipendente e non ha bisogno di commenti».

 

(Postazione a “Quelli di sotto”, Edizioni Sur.)

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Mariano Azuela, Quelli di sotto (il soundtrack)

Nel romanzo di Mariano Azuela (1873-1952) Quelli di sotto – pubblicato dalle Edizioni Sur nella mia traduzione –, che ha inaugurato il ciclo della Rivoluzione messicana, figurano diversi riferimenti musicali che consentono di tracciare una colonna sonora. Il primo accenno compare a p. 15; parlando dei compagni di Demetrio Macías, il protagonista del romanzo, Azuela scrive: «Mangiarono con avidità e una volta sazi si sdraiarono con la pancia al sole e intonarono canzoni monotone e tristi, lanciando urla stridule dopo ogni strofa». Qui non viene menzionato né il genere musicale né i titoli di queste canzoni, ma possiamo pensare a una cosa del genere, che appartiene giusto a quegli anni:

 

 

«¡Qué lejos estoy del suelo donde he nacido!

Inmensa nostalgia invade mi pensamiento;

Y al verme tan sólo y triste cual hoja al viento,

Quisiera llorar, quisiera morir de sentimiento.» Ecc.

 

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Marcelo Cohen, L’llusione monarca

All’inizio uno sguardo percorre l’orizzonte, scende sul mare attirato dai riflessi e poi si sposta sulla spiaggia, delimitata da due muri di calcestruzzo che si inoltrano per un bel pezzo nelle acque, alti sette metri e sovrastati da filo spinato. Lo sguardo è quello di un detenuto condannato per traffico illegale di ghiandole di feti, e il carcere nel quale è stato appena trasferito è fra i più strani che si possano immaginare: le porte delle celle sono aperte sulla spiaggia, dove i prigionieri passano il tempo bighellonando e domandandosi se sia possibile fuggire a nuoto. Per il resto, la prigione somiglia a tante altre: ci sono guardie «dall’aspetto bovino e gli occhi da psicopatico», altoparlanti che impartiscono ordini in tono metallico, riflettori che di notte percorrono instancabili la spiaggia, droghe che circolano sottobanco, bande rivali capeggiate da leader «non troppo onorevoli ma forti». E la violenza scoppia per i motivi più banali, ma soprattutto per il possesso di qualcosa o di qualcuno. Si improvvisano armi appuntite limando pazientemente gusci di conchiglia, si cerca di conservare la forma fisica facendo ginnastica, oppure ci si distrae in futili occupazioni, ma i pensieri diventano ossessivi.

In una situazione del genere, dove la solidarietà è bandita e imperano la diffidenza, la prepotenza e il servilismo, lottare per sopravvivere significa ritagliarsi uno spazio vitale imponendo rispetto, darsi una disciplina e soprattutto avere un piano. Il mare però restituisce via via i cadaveri di coloro che hanno tentato di fuggire a nuoto. Ricompare anche quello di un detenuto che affermava di essere un agente infiltrato, legato mani e piedi e con dei genitali – non suoi – in bocca, issato su un cavallo.

In questo singolare microcosmo concentrazionario, al limite della verosimiglianza, Marcelo Cohen ha ambientato L’illusione monarca (tr. di Francesca Lazzarato, Gran Via, 135 pp., 14 euro), una nouvelle pubblicata per la prima volta in Spagna nel 1992 insieme ad altri quattro racconti lunghi con il titolo El fin de lo mismo. L’espressione «la ilusión monarca» è tratta da un verso del poeta peruviano César Vallejo, fra i preferiti di Cohen insieme a Rimbaud e Pessoa, e si riferisce al mare, «un’illusione di continuità che a ogni istante si disintegra in violenze». Il mare ispira del resto le pagine più liriche di questa inquietante narrazione, sia nelle riflessioni del protagonista – «l’energia criminale del mare usa nascondersi negli odori che esala» – sia in quelle dei detenuti: «In fondo al mare ci sono pesci ciechi. Il mare è una puttana smorfiosa». Quasi un controcanto alla celebre “Ode all’oceano” dei Canti di Maldoror del conte di Lautréamont: «un immenso livido, applicato sul corpo della terra».

L’indeterminatezza spaziale e temporale – una traccia dell’influenza di Kafka, peraltro riconosciuta di buon grado dall’autore – suggerisce con forza una lettura metaforica del testo, sia in senso politico stretto, in riferimento all’Argentina post-golpe, sia in senso lato: il carcere è anche mentale, esito obbligato della paura, della frustrazione e dell’incertezza esistenziali per chi vive in un mondo retto da leggi ingiuste e oppressive. Si coglie comunque l’amarezza dell’esiliato nelle scarne pagine che gettano uno sguardo oltre i confini della prigione: «Un tempo, il paese in cui si trovava il carcere ambiva a essere una nazione; ma a nutrire le nazioni è qualche variante leggendaria sull’origine, il progetto o il destino, e quel paese era solo una grande pianura dove ondate successive di uomini erano cadute come piogge di polline o pietre (…) Tra un governo e l’altro, iniquità assortite piovevano sulla popolazione come spazzatura da un sacco bucato».

Fra i pregi maggiori di L’illusione monarca risaltano l’intensità delle descrizioni, che distillano poesia, la sapiente costruzione di un’atmosfera di suspense e un uso mai scontato delle immagini, che sfiora talvolta l’ermetismo. Convinto che «la parola è lo strumento di controllo più efficace che esiste, più della paura e della polizia», come ha dichiarato in un’intervista, e che «l’unico modo per eludere questo dominio è parlare in un altro modo», Cohen si è dotato di un linguaggio assolutamente personale, spesso sorprendente, ricco di sfumature ironiche e di neologismi, un motivo in più per ammirare l’improbo lavoro della traduttrice, che si è destreggiata con estrema perizia fra il registro colloquiale dei dialoghi fra carcerati e gli accenti poetici di molte pagine descrittive, e che deve aver faticato non poco per interpretare e restituirci immagini ed espressioni talvolta enigmatiche.

Marcelo Cohen è nato a Buenos Aires nel 1951 in una famiglia slava di origini ebraiche. Nel 1976 militava nel partito comunista e, trovandosi in Spagna al momento del golpe di Videla, decise di fermarsi a Barcellona, dove è rimasto fino al 1996 e dove ha pubblicato i suoi primi sette libri. Collaboratore di importanti testate giornalistiche spagnole, argentine e messicane, traduttore di Henry James, T.S. Eliot, J.G. Ballard, William Burroughs, Ray Bradbury e Clarice Lispector fra gli altri, Cohen ha fondato l’autorevole rivista letteraria Otra parte, che dirige insieme alla moglie, la scrittrice Graciela Speranza. Catalogato spesso, sia pure con tutte le precauzioni del caso, come scrittore di fantascienza, non rifiuta l’etichetta, anche se preferisce la definizione di «sociologia fantastica». E nel prologo di una recente raccolta di saggi, ¡Realmente fantástico!, sostiene che il suo progetto letterario consiste precisamente nel «neutralizzare e limare» la distinzione fra il realismo e il genere fantastico.

Cohen ha coniato per la sua narrativa il termine novelatos, ovvero qualcosa a metà strada tra la novela, il romanzo, e il relato, il racconto. E a partire soprattutto da Los acuáticos (2001), fino al più recente Gongue (2012), ha creato un mondo particolare, il Delta Panoramico: una serie di isole-Stato sparse nel delta di un fiume (così come Onetti e Saer, memori della lezione di Faulkner, avevano ambientato alcune storie in luoghi mitici). Un mondo inventato che tuttavia, per restare fedele al suo progetto letterario, ha dotato di un glossario, di un dizionario e persino di mappe.

 

(Pubblicato su Alias il 22/1/2017)

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