Ricordo con precisione, malgrado siano passati parecchi anni, il primo romanzo che lessi di Juan Filloy: Caterva, nella bella edizione di Siruela del 2003: un volume di 400 pagine fitte, con un “Epilogo” di Mempo Giardinelli, uno dei suoi primi e più entusiasti ammiratori. Era il regalo di un amico, che dunque è il responsabile della passione nata in me per questo scrittore argentino. E così, piano piano (ma neanche tanto) mi sono procurato ¡Estafen!, La potra, La purga, Yo Yo y Yo, e naturalmente Op Oloop, la cui recente pubblicazione da parte dell’encomiabile e intrepida casa editrice Ago è l’occasione per queste note. (Complimenti alla traduttrice, Giulia Di Filippo, che ha fatto un lavoro pregevole.)
Devo ammetterlo: la lettura dei romanzi di Filloy è stata faticosa, o meglio, laboriosa. Erano numerose le indispensabili interruzioni per trovare sul dizionario il significato di un termine, e spesso non era sufficiente aprire quello della Real Academia Española: bisognava ricorrere a un dizionario di lunfardo, o talvolta a quello di francese, inglese, tedesco… viste le citazioni o i prestiti linguistici da queste lingue. (Frequenti anche le citazioni dall’italiano.) Per non parlare dei neologismi e dei calembour. Solo una seconda lettura, scorrendo più fluida, permetteva di cogliere, attraverso le bizzarre ma oculate scelte linguistiche, l’esattezza dei concetti e la bellezza delle immagini.
Devo anche confessare che per molto tempo non mi sono interessato particolarmente dell’autore: forse coltivavo l’illusione di conoscerlo meglio attraverso i suoi scritti che compulsando qualche sito su internet in cerca di articoli illuminanti. O forse non si trattava di un’illusione, ma di un’intuizione: in effetti, consiglio vivamente di leggere i suoi libri e di lasciar perdere la mitologia nata intorno alla persona dell’autore. Del resto, in un’intervista Filloy ammise che il personaggio di Op Oloop per l’80% era lui stesso. Ma se la costruzione di uno scrittore tende a creare il suo Mito – César Aira docet –, perché mai ignorare deliberatamente gli aspetti singolari, quasi leggendari, della figura di Juan Filloy? Sarà forse utile riassumere in breve i più significativi.
Biografia mitica
Juan Filloy si vantava di essere uno “scrittore di tre secoli”: in effetti, nato nel 1894, morì nel 2000, alla bella età di 105 anni. Spirò beatamente mentre faceva la siesta dopo pranzo. Figlio di analfabeti, lettore compulsivo fin da ragazzo, arrivò a diventare giudice. Visse per più di 60 anni a Río Cuarto, una cittadina della provincia di Córdoba, esercitando questa professione, e si tenne sempre lontano da Buenos Aires. Negli anni ’30 pubblicò sette libri, fra cui tre romanzi destinati a garantirgli una fama imperitura: ¡Estafen! [Imbrogliate!], Op Oloop e Caterva, con una tiratura di 500 copie, edizioni fuori commercio che l’autore spediva ad amici, conoscenti e altre persone scelte accuratamente. Poi seguì un lungo silenzio editoriale di 28 anni, quando furono rieditati due romanzi, ¡Estafen! e Op Oloop, e venne pubblicato per la prima volta La potra. (Quest’ultimo, scritto all’età di 80 anni, è la storia della passione carnale fra una proprietaria terriera inglese e un dipendente nativo che riprende il tema de L’amante di Lady Chatterley.) Nel 1975, l’anno precedente all’instaurazione della dittatura di Videla, pubblicò Vil y vil, un romanzo antimilitarista che naturalmente venne proibito; lui se la cavò con lunghi interrogatori in cui riuscì a convincere gli ingenui censori che le opinioni espresse nel romanzo appartenevano ai personaggi, e non all’autore…
Pare che le opere ancora inedite siano più numerose di quelle pubblicate. È autore di migliaia di sonetti e di altrettanti palindromi, che ha riunito nel libro Karcino, presentato come un Trattato di palindromia. (Un paio di esempi impeccabili: “Ateo por Arabia iba raro poeta”; “Madam, I’m Adam. ¡Ave! Yo soy Eva”.)
Tutti i suoi libri hanno titoli di sette lettere. Alla domanda di un giornalista che gliene chiedeva ragione, rispose che non c’era alcuna cabala occulta: per i primi era successo per caso, poi era diventata un’abitudine. Resta comunque il dubbio.
Sposò l’amata Paulina dopo un lungo rapporto epistolare. Quando si incontrarono per la prima volta, lasciò trascorrere solo quattro giorni prima di convolare a nozze. Scambiò lettere in tedesco con Sigmund Freud, al quale aveva inviato una copia di Op Oloop e che gli aveva risposto complimentandosi. Fu amico di Miguel Ángel Asturias e del poeta cubano Nicolás Guillén, grazie al quale conobbe Hemingway durante un viaggio a Cuba.
Per molto tempo si è parlato di lui come di un uomo burbero, distaccato, timido, ma questa immagine non concorda con la realtà: a Río Cuarto ebbe una vita sociale piuttosto intensa; fu arbitro di boxe, fondò, oltre a un Museo di Belle Arti, una squadra di calcio e il club del golf. Era un appassionato nuotatore.
Non fece parte di nessun gruppo letterario. Aveva amici e simpatie fra entrambi i gruppi che si confrontavano allora: quelli di Boedo e quelli di Florida e della rivista Sur. Era più vicino ai primi per la visione politica, ma sensibile agli aspetti estetizzanti e cosmopoliti dei secondi; perciò non si schierò mai e non aderì a scuole o consorterie varie. Prediligeva comunque Bioy Casares, di cui era amico, a Borges, a proposito del quale dichiarò che “gli mancava quilombo” [letteralmente: postribolo] e che in ciò che scriveva non c’erano coiti né sangue. Borges, che era insofferente persino nei confronti degli innocenti gerundi di Laiseca, chissà cosa avrà pensato di lui. Nel post “Borges, l’antipatico” (qui) riferisco un eloquente e divertente aneddoto.
Il prolungato silenzio editoriale si spiegava, a suo dire, con l’incompatibilità fra i temi che trattava e la sua professione di giudice. E c’è da credergli, anche se sulla decisione di non fare edizioni commerciali può aver pesato l’idiosincrasia per il funzionamento del mercato editoriale. In un’intervista dichiarò: Io non ho mai voluto pubblicare a Buenos Aires per non sottomettermi al triplice ludibrio della stampa, della morale cittadina e della Chiesa.
¡Estafen! – romanzo, come Op Oloop, incentrato su un personaggio – è l’elogio dell’astuzia di un falsificatore di cheques che in carcere riesce, trasformandosi in un prigioniero modello e grazie alla sua dialettica e alle sue maniere, a conquistarsi la simpatia degli altri prigionieri e la fiducia dei carcerieri. E, criticando il sistema giudiziario, insegna come proteggersi dalle leggi e dalla repressione statale. Peraltro è una specie di Robin Hood che ruba solo ai potenti e poi redistribuisce ai suoi simili bisognosi.
Caterva è invece un romanzo corale. Racconta l’epopea di sette linyeras – una sorta di homeless americani o di clochard francesi – che hanno organizzato una truffa, compiono attentati e viaggiano con mezzi di fortuna per consegnare il bottino a un sindacato di lavoratori in sciopero. Riuscendo a ridicolizzare la polizia che li insegue. I personaggi sono, per così dire, “ben assortiti”: uno spagnolo, un ex illusionista, un francese giramondo abile nel “vivere senza lavorare”, un depravato sessuale, un maniaco della puntualità, un ideologo che lancia anatemi e invettive di carattere sociale, un avvinazzato. E fra le innumerevoli avventure e disavventure, ciascuno di loro ha l’occasione di fare lunghi monologhi che aprono squarci nel sipario e lasciano intravedere un panorama sociale impietoso. Anche da questo romanzo polifonico traspare una spiccata simpatia per le cause popolari e un feroce disprezzo per le cosiddette forze dell’ordine che avrebbero fatto storcere il naso ai censori.
Op Oloop
Op (abbreviazione di Optimus) Oloop è uno statistico finlandese che si è trasferito a Buenos Aires dopo essere fuggito dal suo paese per aver sostenuto i bolscevichi. 39 anni, maniacalmente metodico, è fidanzato con la giovane figlia del console del suo paese. Nel corso di una giornata in cui è previsto il suo fidanzamento ufficiale, in preda a un’agitazione incontrollabile, commette una serie di stramberie. Dal solito stabilimento termale – dove lascia allibiti gli inservienti che ascoltano i suoi discorsi deliranti – sale prima su un autobus e poi su un taxi in uno stato di enorme confusione mentale. Ordina al tassista di girare in tondo intorno a una piazza. Quando scende il tassista gli dice: “Dimentica il resto, signore”. E lui: “Se lo metta nel culo!”. La frase, del tutto estranea al suo normale aplomb – se ne rende conto e se ne rammarica – è un anticipo del bailamme che creerà nella casa del console, pronunciando frasi sconclusionate e ridendo a crepapelle. Viene chiamato un medico, che diagnostica uno shock nervoso e suggerisce il manicomio, ma si tratta solo di un delirio d’amore, peraltro condiviso con la fidanzata. Succede che il nostro uomo si è innamorato, il che non rientra nei suoi schemi mentali, e tanto basta per scombussolarlo completamente. Perdipiù è ricambiato, e così la concitazione di questa prima parte del romanzo si acquieta in un dialogo immaginario “di amorosi sensi” tra i due fidanzati, che ricorda il “Colloquio di Monos e Una” di Poe.
Nel secondo blocco assistiamo al banchetto che lo statistico offre ad alcuni amici, fra cui un tecnico cinematografico, un controllore di volo, uno studente di medicina e un macrò. Come in Caterva, la disparità delle posizioni sociali, oltre che dei caratteri, dei vari personaggi consente a Filloy di adoperare registri stilistici diversi. La discussione tocca argomenti filosofici, psicologici, amorosi, sessuali (il libro venne proibito perché considerato pornografico e lesivo della morale), ma anche frivolezze: si parla di menù, vini, cocktail, marche di sigarette… Alla fine Op Oloop si decide a rispondere alle insistenti domande circa il motivo dell’invito: si tratta di festeggiare il suo millesimo coito mercenario, che si appresta a consumare. Fedele al suo spirito metodico, aveva annotato tutti gli incontri: “Solange, 28, brunetta, francese. ‘Mummia’. Quattro sorelle, prostitute. ‘Chiqueteuse’. Quindici dollari!”. “Merkel, 26, lituana, quasi albina. Cicatrice di un cesareo. Grassa. Sudore rancido. Repellente”. E così via. Seguono i commenti degli amici: perplessi, scandalizzati o entusiasti.
Nel terzo blocco si descrive la visita al bordello, dove Op Oloop è di casa e viene accolto malgrado l’ora tarda. L’amico macrò gli aveva suggerito un nuovo arrivo: una svedese, ma lui scopre che si tratta di una finlandese, una compatriota, figlia di una prostituta da lui conosciuta molti anni prima. E qui ci fermiamo, per non svelare al lettore il sorprendente finale.
Sono molti i motivi di interesse che offre il romanzo, al di là dell’originalità e della “scandalosità” delle tematiche. Fra tutti bisogna segnalare l’uso della lingua. Si può essere d’accordo con Mempo Giardinelli quando scrive: “Filloy era già barocco quando nessuno parlava del barocco letterario latinoamericano”. E anche quando sottolinea le difficoltà che presenta la sua lettura, motivo per cui è stato per molto tempo, e lo è ancor oggi, un autore “di culto”. A volte sembra affetto da verborragia, come se volesse sfidare la pazienza del lettore, metterlo alla prova, dispiegando una prosa elaborata fin nei minimi dettagli e illuminata da sprazzi d’ironia e di sarcasmo. Tenere insieme un linguaggio elevato – ricco di sfumature poetiche e di voli pindarici intorno a temi filosofici universali – con la coprolalia e le espressioni volgari dei bassifondi non era affatto usuale nella letteratura dell’epoca. Significava sfidare apertamente convenzioni che configuravano una sorta di politycall correctness. Filloy se la rideva dei suoi contemporanei che scrivevano “sterco” laddove ci voleva un bel “merda”– per riprodurre fedelmente il linguaggio della gente comune – in ossequio a presunte regole anchilosate e anacronistiche. La sua erudizione, per non parlare della sua cultura, gli consentiva di usare con perfetta cognizione di causa un numero sterminato di vocaboli, e di introdurre nei dialoghi citazioni di vari autori, da Baudelaire a Cervantes, Platone, Rostand, Nietzsche…
Alfonso Reyes lo definì “progenitore di una nuova letteratura americana” e Cortázar, suo grande ammiratore, ne parlò in Rayuela [Il gioco del mondo], e a lui si ispirò per le proprie opere Leopoldo Marechal.
Auguriamoci che Ago prosegua con la pubblicazione dei suoi romanzi, che farebbero la gioia dei lettori più curiosi ed esigenti.