Caza de conejos reca in calce la data della stesura: marzo 1973, ma sembra scritto ieri, anzi… domani. Fu pubblicato per la prima volta soltanto nel 1982 in un’antologia: Lo mejor de la ciencia ficción latinoamericana.
Il lettore ha qualche motivo per essere perplesso: fantascienza? Lo stesso Levrero respinse la classificazione, così come l’appartenenza alla letteratura fantastica, e coniò la definizione di “realismo interiore” (un critico lo chiamò “realismo introspettivo”), eppure, a ben vedere, nei suoi racconti compaiono numerose ambientazioni e tematiche tipiche del genere. Per esempio, in Gelatina ci presenta un mondo invaso da una massa gelatinosa che travolge tutto, comprese le relazioni umane tra i sopravvissuti. Nel racconto La sombrilla, in seguito a sconvolgimenti naturali, scompare il mare. Los ratones felices inizia come una favola che ha per protagonisti gli animali (simpatici topolini e un leone beneducato) per trasformarsi – previa assunzione di certe pastiglie – in un infernale e allucinante distopia burocratica. Eccetera.
Del resto, anche il primo romanzo di Levrero, La ciudad (1970)1, uscì in una collana intitolata Mundos imaginarios, in compagnia di Theodore Sturgeon, Robert Sheckley e Philip K. Dick (con quest’ultimo condivideva fra l’altro la passione per la metapsichica: nel 1978 pubblicòun Manual de parapsicología scritto per incarico).
Nell’introduzione a Lo mejor de la ciencia ficción latinoamericana, firmata dal celebre scrittore di fantascienza A. E. Van Vogt, le righe dedicate a Levrero offrono una riflessione valida ancor oggi: “Nel suo paese l’autore è qualificato come ‘maestro della fantasia’. In effetti, bisogna possedere un tipo di genio comico molto speciale per scrivere qualcosa come Caza de conejos, e avere una intelligenza molto ardita per usare una forma di scrittura così diversa da ciò a cui sono abituati i lettori”. E in chiusura faceva una profezia che si è puntualmente avverata: “Siccome l’autore afferma che non è riuscito a guadagnarsi da vivere con i suoi scritti, possiamo immaginare che avrà perseverato nell’essere ugualmente innovatore nelle sue altre storie, senza preoccuparsi delle conseguenze”.
Non a caso il critico uruguayano Ángel Rama lo inserì fra gli scrittori “raros”, secondo una definizione ormai divenuta celebre e anche un po’ abusata, insieme ad altri illustri connazionali: Isidore Ducasse, il leggendario Conte di Lautréamont, Horacio Quiroga, Armonía Somers, Juan Carlos Onetti e Felisberto Hernández, al quale Levrero è stato spesso avvicinato. (Nel suo ultimo libro, Los carros de fuego, del 2003, gli dedicò un omaggio riferendosi a un episodio della sua infanzia narrato in Tierras de la memoria2).
Per arrivare al contemporaneo Felipe Polleri, che di Levrero fu amico e “discepolo”, il quale ha dichiarato in una intervista: “È un’etichetta che nasconde un retropensiero: invece di leggerlo, diciamo che è un altro scrittore raro”.
Caza de conejos è stato accostato a Julio Cortázar per il racconto Lettera a una signorina a Parigi, nel quale capita al protagonista, ogni tanto, di vomitare coniglietti. Se inizialmente accetta questo fatto come se fosse normale – gli sono simpatici e si diverte perfino con loro –, quando diventano troppo numerosi decide di sbarazzarsene gettandoli sul selciato, prima di suicidarsi. Ma forse è più pertinente il riferimento a un’altra opera di Cortázar, Storie di Cronopios e di famas, creature fantastiche che rappresentano una contrapposizione fra la trasgressione delle norme sociali e una vita poetica guidata dalle emozioni (i cronopios) e una concezione del mondo basata sulla razionalità e sul rispetto delle regole (i famas). Entrambi, però, in fin dei conti sono abbastanza “irregolari”, e i loro ruoli quasi intercambiabili.
È indubbio, comunque, che lo stimolo più incisivo per la creazione del microcosmo di Caza de conejos è Ejercicios antropológicos, di José Pedro Díaz, che figura in testa alle epigrafi, un testo anomalo costituito da brevi frammenti.
Vale la pena citare per intero il brano Liebres, che prosegue così: “Ma bisogna inventarle vive, agili, inafferrabili. Rimane sempre, inoltre, la possibilità che le nostre lepri inventate risultino essere identiche ad altre invisibili, ma reali, e anche che facciano i loro stessi movimenti”. La metafora che associa le lepri alle libere idee, all’invenzione, alla pura narrazione, è abbastanza evidente, e coincide con lo spirito della scrittura di Levrero.
Anche José Pedro Díaz era uruguaiano, pubblicava su una rivista in cui comparvero anche gli scritti di Levrero, e anche lui fu catalogato come scrittore di fantascienza. I due si conobbero – “Ho incontrato Levrero e abbiamo avuto una bella serata di chiacchiere”, scriverà al loro comune editore –, e fra gli Ejercicios antropológicos figura un testo (Cazadores) che è un esplicito omaggio al collega: “Nella regione sono ben conosciuti i fucili. In realtà si potrebbe dire che ce n’è almeno uno in ogni casa. E questo si spiega, perché il luogo è pericoloso (…) c’è un gruppo di persone che sostengono che bisogna dare la caccia ai leoni con le lance (…) due volte all’anno alcuni di loro – due o tre – vanno a caccia di leoni nel campo. Non tornano mai. Nessuno se ne stupisce: è sempre successo così”.
Caza de conejos appartiene alla fase iniziale dell’attività letteraria di Levrero, decisamente ludica (Nick Carter se divierte mientras el lector es asesinado y yo agonizo3 (1975), La banda del Ciempiés (1989), Dejen todos en mis manos4 (1996). Loris Tassi, in una recensione a Nick Carter…, una stralunata parodia dei romanzi polizieschi e della letteratura fantastica, ha colto il di più che c’è nel romanzo, riportando una citazione: “E tu, lettore, che ti impietosisci per il vuoto di Nick Carter, che cosa sai dirmi di te? Del tuo enigma, della tua identità? Non ti rendi conto che anche tu sei stato assassinato? (…) Ma nella tua cecità chiami vita la tua vita, quella che trascini, come tanti lettori, infettando il mondo. (…) Tu non sei migliore di Nick Carter, e neppure di me”.5
La Banda del Ciempiés è un delirante poliziesco ricco di colpi di scena: dal panico scatenato in città da un telo che nasconde cinquanta uomini che corrono e travolgono tutto al loro passaggio scaturiscono sequestri, complotti, inseguimenti e persino gravi problemi fra stati.
In Dejen todos en mis manos uno scrittore in cattive acque accetta di cercare il misterioso autore di un manoscritto che il suo editore ha deciso di pubblicare. E si ritrova coinvolto in esilaranti avventure.
Oltre alle risate garantite da questi titoli, c’è l’impronta dello sperimentatore, che mischia abilmente suggestioni surrealiste, situazioni oniriche, rimandi metaforici, il gusto per la parodia e per l’autoironia.
In Caza de conejos i cacciatori che si camuffano da conigli o da guardaboschi, ammaestrano orsi e diventano il bersaglio di freccette scagliate dai ragni, mettono in scena una crudele lotta per la vita: inseguimenti, battaglie, vittime e carnefici, ma intervengono rapidi ed enigmatici cambiamenti del punto di vista, e così si catturano i conigli per avere piacevoli compagni di giochi. Nel microcosmo del bosco, popolato di animali parlanti e persino di maghi in cilindro, tutti possono vestire i panni degli altri, cambiare ruolo, e finiscono per somigliare ai loro nemici (“Ogni tanto mi piace passare dalla parte dei guardaboschi”). Nessuno e niente appare per quello che è. “Nothing is real”, il verso di una canzone dei Beatles, figura come epigrafe di Alice Springs, uno dei suoi racconti più straordinari.
L’ambiguità e le contraddizioni nelle affermazioni delle voci narranti, l’assenza della trama e di una sequenza temporale, le incursioni nei territori del sogno e della memoria, costituiscono una sfida insuperabile per il lettore, costretto infine a riconoscersi incapace di sistemare i tasselli del puzzle. Mentre la presenza di figure femminili dotate di una forte carica erotica – una costante nell’opera di Levrero, soprattutto nei due romanzi brevi Fauna e Desplazamientos – segnala la presenza immanente del desiderio come forza irrefrenabile, l’inseguimento dell’oggetto sessuale sfuggente, la costante posticipazione del raggiungimento del piacere.
Levrero ha sempre rivendicato con orgoglio la sua distanza dalle tematiche di carattere politico-sociale, ma in Caza de conejos traspare una denuncia crudelmente ironica della violenza e dell’insensatezza del potere. Nel lungo frammento XLIX la critica del militarismo non potrebbe essere più incisiva e derisoria; nel frammento XC vengono messe alla berlina le tecniche pubblicitarie e il consumismo…
La libidinosa e incestuosa Laura, le cuginette dell’idiota, le “ragazze selvatiche” che i cacciatori cercano di catturare nel bosco, dove “non ci sono conigli”, ricordano la fascinazione per le donne e le manovre seduttive dei personaggi delle opere di Kafka (K. si innamora di tutte le donne che incontra sulla sua strada). E il passaggio dalla realtà della scrivania dello scrittore alla fantasticheria più sfrenata, tipica di molti scritti di Levrero, figura nel brevissimo racconto di Kafka Desiderio di diventare un indiano: “Se si fosse almeno un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa, torto nell’aria, si tremasse sempre un poco sul terreno tremante, sinché si lasciavano gli sproni, perché non c’erano sproni, si gettavano via le briglie, perché non c’erano briglie, e si vedeva appena la terra innanzi a sé come una brughiera falciata, ormai senza il collo e la testa del cavallo!”.6
I punti di contatto con Kafka sono innumerevoli: l’importanza essenziale della realtà interiore, l’attenzione alla vita onirica, le ambientazioni neutre, prive di precise caratteristiche, l’umorismo che sgorga anche dalle situazioni più cupe.
Levrero in effetti attraversò una fase kafkiana, frutto di una decisiva influenza consapevolmente assunta e poi rivendicata. Ne scaturì la cosiddetta “trilogia involontaria”7: La ciudad (1970), París (1980) e El lugar (1982). Quando scrisse La ciudad, Levrero stava soffrendo una crisi personale, e la lettura di America e del Castello fu una vera epifania: la sensibilità e il punto di vista sul mondo di Kafka coincidevano con i suoi. L’identificazione lo spinse a dichiarare: “Che cosa ne so io se certe cose le ha vissute Kafka o le ho vissute o sognate io; adesso mi turbano come mie anche se non le ricordo”. E ancora, in una intervista: “Finché non ho letto Kafka non sapevo che si poteva dire la verità”.
Infine, c’è la fase più apertamente autobiografica, con il capolavoro postumo La novela luminosa8 pubblicato nel 2005, un anno dopo la sua morte, e El discurso vacío9 (1996). Scritte come pagine di diario, sulla stessa linea del Diario de una canalla, pubblicato nel 2013, queste due opere – voluminosa la prima, snella la seconda – costituiscono una profonda riflessione sull’atto della scrittura, una scrittura che si regga su se stessa, senza ricorrere a una trama, a un’intenzione narrativa: una scrittura che si sforza (invano) di non dire niente.1010
La novela luminosa registra le giornate di un uomo anziano, pieno di acciacchi, depresso, alle prese con i suoi tic, le sue manie, le sue letture, le visite di qualche amico, la dipendenza dal computer (i videogiochi, i film porno, la programmazione). Eppure, questo che sembra a tutti gli effetti un anti-romanzo è assurto, per la critica più avveduta, a una delle vette della letteratura latinoamericana del Novecento.
El discurso vacío descrive una sorta di scrittura terapeutica: l’autore fa esercizi quotidiani di calligrafia, convinto della loro efficacia per ottenere la stabilità psicofisica. Ma il tentativo di non scrivere di nulla in particolare fallisce, e sulla pagina cominciano a comparire riflessioni sulla vita, sull’arte, sogni, aneddoti.
Rimangono ancora inedite in italiano – c’è da sperare non per molto – oltre ai romanzi El alma de Gardel, Fauna e Desplazamientos, le sue numerose raccolte di racconti: La máquina de pensar en Gladys, Todo el tiempo, Los muertos, Aguas salobres, Espacios libre, El portero y el otro, Los carros de fuego. E le Irrupciones1111, brevi testi che Levrero scriveva per una rivista, pubblicati nel 2013, di cui si è detto che costituiscono un “genere a parte”.
L’accoglienza della critica e dell’accademia fu piuttosto fredda nei confronti di Levrero mentre era in vita: veniva letto come un autore “di genere”, poliziesco, fantascientifico o umoristico, quasi fumettistico, intriso di cultura pop. Insomma, come appartenente a una “letteratura minore”. Dopo la sua morte, da autore di culto si è trasformato in un pantagruelico banchetto per gli studiosi, e sono comparsi parecchi libri che ne analizzano l’opera, saggi, biografie, interviste inedite… E nel tempo, insieme a opportune e pregevoli pubblicazioni (per esempio, sulla sua attività di creatore di fumetti, cruciverba e indovinelli, attività che gli procurava qualche introito), è cresciuta una fiorente aneddotica su vari aspetti della sua vita e del suo carattere. Si è scoperto così che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non era soltanto l’eremita che usciva raramente di casa con il suo sguardo feroce sul mondo: era un tipo molto divertente che si relazionava con i suoi lettori in modo simpatico e affettuoso. Che si convertì al cattolicesimo – dichiarò di essere “un religioso che non pratica nessuna religione” –, confermando forse la tesi di chi lo considera uno scrittore “mistico” o un “esoterista”. Che subì per tutta la vita le traumatiche conseguenze psicologiche di un intervento chirurgico, e per questo rifiutò quello che avrebbe potuto salvargli la vita. Che fu sempre squattrinato ma rifiutava l’idea stessa di lavoro – “A Mario e a me il lavoro, la semplice parola lavoro: pochi soldi in cambio di molto tempo, faceva orrore”, ha scritto Polleri –, e che si sottomise a lavorare come dipendente solo a quarantacinque anni e per brevi periodi. Che era estremamente curioso di tutte le novità tecnologiche, dalla fotografia ai computer a Internet, come si evince dal Romanzo luminoso. Che era indifferente alla fama e al successo commerciale: non cercava promozioni, aveva rapporti difficili con gli editori perché quello che gli interessava era un rapporto intimo, quasi ipnotico, con il singolo lettore.
È auspicabile che in futuro si scrivano saggi e volumi che mettano in luce, al di là di questi aspetti, i passi decisivi che ha compiuto verso una letteratura del futuro, libera da pastoie – l’abitudine, il mercato, l’imitazione, lo psicologismo… –, una letteratura che valga in quanto scrittura, aprendo la strada a diversi scrittori contemporanei che hanno riconosciuto la sua maestria.
In questo senso penso che debba essere accolta una penetrante riflessione di Alan Pauls, che a proposito della Novela luminosa – ma si può estendere a tutta l’opera – ha scritto che si tratta non di un diario di scrittore, ma di un progetto: qualcosa che si tratta di realizzare, un obiettivo. In effetti Levrero doveva scrivere il romanzo per un impegno preso con la Fondazione Guggenheim che l’aveva finanziato, ma aveva risposto a un questionario che gli chiedeva di descrivere il suo progetto nel modo più laconico possibile: “Progetto: scrivere”.
Tutta la sua opera è un progetto, e con questo i lettori sono avvertiti: ogni romanzo o racconto, ogni testo inclassificabile di Levrero deve essere letto come la parte di un tutto, e anche una sola dose può dare dipendenza. Siete pronti a unirvi alla schiera dei suoi lettori compulsivi?
note
1 La città, tr. it. di C. Imperio, La Nuova Frontiera, 2020.
2 Terre della memoria, tr. it. di F. Lazzarato, La Nuova Frontiera, 2015.
3 Nick Carter si diverte mentre il lettore viene assassinato e io agonizzo, tr. it. di S. Caravero, Calabuig, 2016.
4 Lascia fare a me, tr. it. di E. Tramontin, La Nuova Frontiera, 2018.
5 Loris Tassi è stato il primo a tradurre e pubblicare un racconto di Levrero, Una confusione nel noir, in Inchiostro sangue. Antologia di racconti e saggi del Río de la Plata, Edizioni Arcoiris, 2009. Si può leggere qui: http://www.edizionisur.it/sotto-il-vulcano/25-06-2012/un-escritor-raro-mario-levrero/.
6 Racconti, tr. it. (di questo racconto) di R. Paoli, “I Meridiani”, Mondadori, 1970.
7 La definizione è dello stesso Levrero, quando si rese conto che i romanzi condividevano lo stesso tema: la città, le atmosfere e le inquietudini.
8 Il romanzo luminoso, tr. it. di M. Nicola, Calabuig, 2014.
9 Il discorso vuoto, tr. it. di M. Nicola, Calabuig, 2018.
10 La pubblicazione del Romanzo luminoso ha avuto almeno due recensioni che vale la pena di citare: una di Francesca Lazzarato (si può leggere qui: https://latartarugaequestre.blogspot.com/2014/11/da-leggere-mario-levrero.html), che affronta fra l’altro l’enigma del nome completo dell’autore: Jorge Mario Varlotta Levrero; e l’altra di Luca Doninelli sul Giornale che si concludeva così: “Ecco quello che si può chiamare un capolavoro. Il romanzo luminoso si nega ogni esibizione di tecnica ed è un prodigio di tecnica; si nega ogni trama e la sua trama è fitta e persuasiva come poche; rifiuta ogni rappresentazione psicologica ed è uno dei migliori ritratti del nostro io così come esso è realmente, fuori da ogni infingimento”.
11 La traduzione di uno di questi testi, e di altri due brevi racconti di Levrero, si può leggere qui: https://www.perleecicatrici.org/2016/09/09/mario-levrero-un-escritor-raro/#more-509.
Ciao Raul, sono Loris.
Acsoltando la tua presentazione, e, in specifico, alcuni passi che hai letto dell’autore, mi è venuto in mente per associazione quasi immediata questo libriccino che a me è piaciuto molto:
https://sellerio.it/it/catalogo/Avventure-Lufock-Holmes/Cami/281