Quarto di quattordici fratelli, Juan José Arreola nasce a Zapotlán (oggi Ciudad Guzmán), Stato di Jalisco, Messico, nel 1918. Gli anni della sua infanzia sono dunque quelli della cosiddetta Guerra Cristera, la resistenza contro l’applicazione di leggi e politiche che riducevano drasticamente il peso della Chiesa cattolica nella vita nazionale. Se già la Costituzione messicana del 1917 aveva proibito la partecipazione del clero alle attività politiche, le manifestazioni religiose al di fuori dei luoghi di culto, nonché il possesso di beni immobili, con la Ley Calles, del 1926, in certi Stati si volle imporre l’obbligo ai sacerdoti di sposarsi e di vestire in borghese fuori dalle chiese. Dal 1926 al 1929 vi furono numerose battaglie tra l’esercito e milizie cattoliche, formate soprattutto da contadini, che provocarono un numero di morti stimato intorno ai 250.000.
Juan José Arreola apparteneva a una famiglia di fervidi credenti, e non fu mandato alle scuole pubbliche. (Di qui il suo problematico rapporto con la religione, di cui fa fede, oltre alle sue dichiarazioni, la tematica di alcuni racconti di Confabulario, come “Il silenzio di Dio”, “Pablo”, “Un patto con il diavolo” e “Il convertito”.) A quindici anni, in ogni caso, aveva già letto alcuni degli autori – Whitman, Borges, Kafka, Baudelaire, Papini – che lo avrebbero influenzato maggiormente, e in seguito divenne un magnifico autodidatta, in possesso di una cultura stupefacente. Dopo aver fatto diversi mestieri modesti, nel 1944 la grande passione per il teatro lo condusse a Parigi, dietro invito dell’attore francese Luis Jouvet. Rientrato in Messico due anni dopo, principalmente per motivi di salute, lavorò presso la casa editrice Fondo de Cultura Económica come correttore di bozze e traduttore. Intanto scriveva i suoi racconti, poi riuniti in due raccolte fondamentali: Confabulario, del 1952, e Bestiario, del 1959 (pubblicate entrambe dalle edizioni Sur nella traduzione di Stefano Tedeschi). Scrisse anche un curioso romanzo, La feria, del 1963, formato da 288 frammenti quasi vignettistici e incentrato sulla preparazione della festa paesana di san Giuseppe, che viene però sabotata e si trasforma in un fiasco.
La passione per il racconto breve e il frammento lo avvicina a un suo coetaneo, l’honduregno Augusto Monterroso – celeberrimo il suo minicuento di una sola riga: “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì” –, e lo rende particolarmente attuale, nel momento in cui si comincia a parlare di twitteratura, in seguito all’esplosione di testi racchiusi nei 140 caratteri di un tweet, e diversi scrittori si cimentano in queste sperimentazioni letterarie, a volte con risultati non disprezzabili.
Del resto, l’essenzialità dell’espressione e la pulizia stilistica sono esigenze della poetica di Arreola che si coniugano perfettamente con la forma breve, così come gli sono congeniali altri aspetti ibridi di questo genere narrativo, ovvero il fatto di situarsi su un imprecisato confine tra la poesia, l’aforisma, l’aneddoto e la favola. Proprio all’antica tradizione favolistica, a partire almeno da Esopo, e alla passione medievale per i “bestiari”, si ispirano i brevi racconti della raccolta omonima, che esibiscono (e a volte celano) o deformano leggermente citazioni poetiche e allusioni colte, ma soprattutto definiscono con pochi sapienti tratti quelle caratteristiche che rendono unico un animale, insieme specchio delle qualità (e più spesso dei vizi) dell’uomo. Come ha scritto: “Negli animali appaiamo caricaturizzati, e la caricatura è una delle forme artistiche che ci aiutano maggiormente a conoscerci”.
Ed ecco il rospo, che secondo un’immagine icastica ed esatta, “è tutto cuore”, e il rinoceronte, che pur essendo “una bestia malinconica e ossidata” si trasforma nell’elegante unicorno che affascina la Bella Dama, mentre l’orso, che nutre un rispetto ancestrale per le donne, “conserva qualcosa del bambino: nessuna donna si negherebbe di dare alla luce un orsetto. In ogni caso, le ragazze ne hanno sempre uno sul letto, di peluche, come un auspicio di felice maternità”.
Dal prologo (dal sapore baudelairiano) di questa raccolta riporto una frase che servirà a sviluppare alcune riflessioni su un aspetto dell’opera di Arreola che gli ha procurato accuse di misoginia. (Vale la pena precisare, onde evitare equivoci, che ci occupiamo della misoginia della voce narrante di alcuni racconti, e non di una presunta caratteristica personale dell’autore.) Scrive Arreola, dopo averci invitato ad amare il nostro prossimo anche in tutte le manifestazioni che lo rendono simile a un animale: “E ama la prossima che all’improvviso si trasforma al tuo fianco, e con un pigiama da vacca comincia a ruminare senza fine il pastoso bolo alimentare del tran tran domestico”. Immagine un po’ brutale, vero? Che insieme a una sentenza delle Clausolas trasmette un quadro non proprio invitante della vita di coppia: “Ogni volta che l’uomo e la donna cercano di ricostruire l’Archetipo, formano un essere mostruoso, la coppia”. (“La coppia, ho visto l’inferno della donna laggiù” aveva scritto Rimbaud.)
Chi ha voluto parlare di misoginia, del resto, aveva solo l’imbarazzo della scelta. Si pensi a racconti come “Pubblicità”, “Parabola del baratto”, “Eva”, “Una donna ammaestrata”.
“Pubblicità” si presenta come il testo di un annuncio: “Ovunque la presenza delle donne risulti difficile, onerosa o nociva, nell’alcova dello scapolo, o in un campo di concentramento, l’uso di Plastisex è estremamente raccomandabile. L’esercito e la marina, così come alcuni direttori di carceri e di scuole, forniscono alle reclute il servizio di queste attraenti e igieniche creature”. Si tratta con tutta evidenza di una sorta di robot sessuali personalizzati e assai efficienti, nonché esenti da ogni difetto umano. (La conclusione del racconto, tuttavia, pare assegnare alla donna uno status diverso da quello di semplice oggetto del desiderio: “Al diffondersi dell’uso della Plastisex, assisteremo all’esplosione del genio femminile, così lungamente attesa. E le donne, libere ormai dai loro doveri, tradizionalmente erotici, stabiliranno per sempre nella loro bellezza transitoria il puro regno dello spirito”.)
L’idea della “sostituzione” viene ripresa in “Parabola del baratto”. Qui sono le donne di una certa età a essere rimpiazzate da altre più giovani, tutte bionde, anzi, “dorate come candelabri” e invariabilmente belle; un mercante le offre, e tutti i mariti si precipitano a prenderle in cambio delle vecchie mogli, salvo il narratore del racconto, che si tiene la sua e per questo viene deriso e ostracizzato dai compaesani. Persino la moglie lo rimprovera, accusandolo di non averla scambiata per vigliaccheria, ma di averlo desiderato. E la sua condizione di frustrato non cambia neanche quando si scopre che il mercante ha ingannato tutti quanti: le sue “donne”, infatti, a un certo punto cominciano ad “arrugginire”.
In “Eva” il narratore vuole sedurre una donna dotata di una coscienza femminista. Lei però rimane fredda alle sue continue citazioni di Bachofen sul matriarcato, che non la consolano affatto dei maltrattamenti millenari subiti, finché lui trova la frase di uno scienziato fittizio che gli dischiude il cuore della ragazza: “All’inizio c’era un solo sesso, evidentemente femminile, che si riproduceva automaticamente. Un essere mediocre cominciò a nascere in forma sporadica, con una vita precaria e sterile di fronte alla formidabile maternità. Nonostante ciò, poco a poco si appropriò di certi organi essenziali. A un certo punto divenne imprescindibile. La donna si rese conto, troppo tardi, che le mancavano ormai la metà dei suoi elementi e dovette cercarli nell’uomo, che fu uomo grazie a quella separazione progressiva e a quel ritorno accidentale al suo punto di origine”.
Per difendersi dalle accuse di misoginia, Arreola ha affermato: “Io mi considero un essere diviso, strappato dalla ganga generale. Soffro di questa nostalgia e ho cercato di esprimerla in testi che possono essere erroneamente interpretati come una critica antifemminista. Fin dall’infanzia sono sempre stato desideroso di completarmi nella donna. Non concepisco l’uomo senza quel letto in cui riposa e prende forma, non concepisco l’uomo senza confronto”. E ancora “Richiamo l’attenzione sul carattere blasfemo, nel senso più religioso del termine, delle mie allusioni procaci alla donna, dato che in lei venero la fonte dell’ultima sapienza, la porta del reingresso nel paradiso perduto”. La discussione critica fra sostenitori della misoginia e difensori di Arreola pare destinata a durare a lungo.
Arreola appartiene a quella stirpe di scrittori che a un certo punto smettono di scrivere, il cui esponente più celebre è il suo coetaneo messicano Juan Rulfo. Ma non si ritirò in un deserto come Rimbaud, e non smise soprattutto di parlare, cominciò anzi a comparire con regolarità in programmi televisivi, così come non smise di insegnare, creando forse per primo dei corsi di scrittura nei quali si formò un’intera generazione di giovani scrittori messicani. Bisogna leggere la bella postfazione di José Emilio Pacheco a Bestiario per avere una testimonianza di prima mano sia del famoso “blocco dello scrittore”, sia di alcune caratteristiche umane di Arreola.
C’è comunque un racconto illuminante a proposito dei motivi che lo spinsero ad abbandonare la scrittura creativa, quello che apre la raccolta Confabulario, ma che figurerebbe bene – logicamente – anche come racconto conclusivo, “Parturient montes”. L’aneddoto è semplice: al narratore viene richiesto dal pubblico di raccontare una versione dell’arcinota storia della “montagna che ha partorito il topolino”. Lui cerca di schermirsi ma poi, messo alle strette, sale su una pedana improvvisata e comincia ad arringare i presenti. Ma una volta arrivato al dunque si blocca, gli mancano le parole per concludere, non trova quel benedetto topo, e dopo essersi rovesciato le tasche, comincia a denudarsi, finché, all’acme del parossismo, dall’ascella gli spunta un topolino.
Come disse in un’intervista, “Parturient montes” è una sorta di testamento ed epitaffio: «È l’impossibilità dell’opera d’arte. Dico opera d’arte e non solo testo scritto. Ogni uomo che vuole dire ciò che sente, ha già fallito da subito. Con “Parturient montes” è la fine e mi sono congedato dalla letteratura. Perché scrivere se non posso offrire altro che una creaturina di queste dimensioni?»
Il risultato dell’atto creativo è sempre un topolino partorito dalla montagna, dunque la scrittura non ha senso e smette di essere necessaria. Come ha scritto un critico acuto della sua opera: «Abbandonò la parola perché era stato abbandonato dalla Parola. Condannò le donne perché non avevano saziato la sua brama imperiosa di amore assoluto. Se la prese con Dio perché si sentiva solo, soffocato nei labirinti dell’universo e sempre sul bordo del nulla. La sua opera, oltre ad avere un posto speciale nella letteratura ispanoamericana, resterà come una testimonianza dei tormenti del suo spirito e forse come il cupo segnale che “ogni vera poesia è impossibile”.»
(Rielaborazione degli appunti preparatori per la presentazione di Confabulario, di Juan José Arreola, tenutasi il 22 marzo presso l’Ambasciata del Messico a Roma, alla presenza del traduttore, Stefano Tedeschi, che a sua volta ha presentato il romanzo Quelli di sotto, di Mariano Azuela, da me tradotto per le edizioni Sur.)