Roberto Arlt si vantava di aver venduto il suo primo racconto a otto anni, a un «distinto signore» del quartiere di Flores conosciuto in libreria, il quale gli aveva promesso in cambio una ricompensa ed era poi rimasto talmente impressionato da regalargli cinque pesos: «Quello è stato il primo denaro che ho guadagnato con la letteratura».
Di certo nell’insieme della sua opera la scrittura di racconti, insieme all’attività giornalistica, è stata di gran lunga l’attività più costante e feconda, ma rimane anche quella meno conosciuta e studiata, in patria e fuori. Finora ne sono stati rintracciati più di settanta, di cui solo ventiquattro erano stati riuniti in volume dall’autore: nove in El jorobadito e quindici in El criador de gorilas.
Insieme alle sue celebri Aguafuertes1, con cui hanno svariati punti di contatto tematici e stilistici, i racconti gli consentivano di sbarcare il lunario. Ancora l’ossessione del denaro, che «è il miglior romanziere del mondo», come leggiamo in un breve e denso testo di Ricardo Piglia dedicato ad Arlt2. Certo, non il denaro «vile e odioso», sudato facendo lavori infami o sordidamente risparmiato rinunciando a vivere, ma quello fabbricato (il sogno degli alchimisti), falsificato, rubato, realizzato grazie a qualche prodigiosa invenzione tecnica; oppure, guadagnato scrivendo: «fare soldi con l’immaginazione». La letteratura come «macchina per fabbricare pesos».
Arlt era ben consapevole di questo suo candido cinismo, e in «Scrittore fallito», il racconto che apriva la prima edizione di El jorobadito, fa pronunciare al narratore questo ipocrita giudizio moralistico di cui doveva sghignazzare fra sé: «Non era il caso di produrre a tutto spiano tanto per farlo. Non era proprio il caso di prodigarsi, di lavorare giorno e notte, notte e giorno, né di infestare i giornali con la propria firma. Questa era una cosa indegna di uno scrittore che si rispetti». In realtà, come scriveva nel prologo a Los lanzallamas (1931), vero e proprio manifesto letterario: «Orgogliosamente affermo che scrivere, per me, rappresenta un lusso. Non dispongo, come altri scrittori, di rendite, tempo o soporiferi impieghi statali. Guadagnarsi da vivere scrivendo è penoso e faticoso».
I motivi per cui raccolse in volume solo una piccola parte della sua narrativa breve possono essere svariati e legati alle contingenze, magari al desiderio di incassare qualche introito supplementare, ma la decisione fu anche strettamente connessa alla strategia di lotta adottata da Arlt verso la società letteraria del suo tempo. Dal prologo a Los Lanzallamas a una serie di Aguafuertes («El conventillo de nuestra literatura», «Sociedad literaria, artículo de museo», «Por qué no se vende el libro argentino», ecc.) fino a «Scrittore fallito», si succedono infatti diverse prese di posizione molto radicali, sul piano etico ed estetico, che rivelano come Arlt fosse assolutamente consapevole della modernità e della novità costituita dalla sua scrittura, e che lo situano al di là della nota diatriba fra i seguaci di Boedo e di Flores proiettandolo decisamente nel futuro. (Piglia: «È troppo eccentrico per gli schemi del realismo sociale e troppo realista per i canoni dell’estetismo».) Nel prologo scriveva: «… ho deciso di non inviare nessuna mia opera ai critici letterari dei giornali. A che scopo? Perché un signore enfatico, fra una telefonata e l’altra, scriva per compiacere le persone rispettabili: “Il signor Roberto Arlt insiste a restare aggrappato a un realismo di pessimo gusto, ecc. ecc.”. No, no e no. Quei tempi sono passati. Il futuro è nostro, per prepotenza di lavoro. Creeremo la nostra letteratura, non conversando continuamente di letteratura, ma scrivendo in orgogliosa solitudine libri che racchiudono la violenza di un cross alla mascella. Sì, un libro dopo l’altro, e “che gli eunuchi sbuffino pure”. L’avvenire è trionfalmente nostro». E nell’aguafuerte «La inutilidad de los libros», rispondendo a un lettore, ribadiva: «Se lei conoscesse i retroscena della letteratura, si renderebbe conto che lo scrittore è un signore che esercita il mestiere di scrivere, come altri di costruire case. Nient’altro, quello che lo differenzia dal costruttore di case è che i libri non sono tanto utili quanto le case, e poi… e poi che il costruttore di case non è così vanitoso come lo scrittore».
In «Scrittore fallito», pubblicato dapprima sul supplemento letterario del quotidiano La Nación il 17 gennaio 1932 con il titolo «Un hombre fracasado», alcuni critici hanno voluto identificare l’autore con la voce narrante del racconto, ma l’interpretazione non regge: anzitutto, in quegli anni Arlt era uno scrittore di successo: i suoi romanzi si vendevano bene e le Aguafuertes lo avevano reso famoso. Si tratta piuttosto, come ha messo bene in luce Loris Tassi, di «una velenosissima satira nei confronti della vita letteraria nell’Argentina degli anni Venti (…) è un racconto criminale sulla comunità di coloro che non hanno comunità. Gli scrittori si comportano più o meno come la comunità dei ruffiani presente in “Las fieras”. Quello della letteratura, è un mondo canagliesco». E Piglia, in Nombre falso, fa dire a un personaggio: «Legga “Scrittore fallito”: è la cosa migliore che Roberto Arlt scrisse in tutta la sua vita. La storia di un tipo che non può scrivere niente di originale, che ruba senza rendersene conto: così sono tutti gli scrittori in questo paese, così è la letteratura qui. Tutto falso, falsificazioni di falsificazioni».
«Ester Primavera», come «L’abito del fantasma» – e come «Il gobbetto» e «Le belve», non inclusi in questa antologia –, è un monologo-confessione in prima persona; e se il narratore di «L’abito del fantasma», così come quello di «Il gobbetto», pronunciava la sua autodifesa da un carcere, quello di «Ester Primavera» ricorda la donna che ha «offeso atrocemente» da un altro lugubre luogo di reclusione, un sanatorio. (Vale la pena ricordare che la tubercolosi si portò via la sorella e la moglie di Arlt, il quale, per stare vicino a quest’ultima, trascorse un periodo di tempo a Cosquín, località di montagna dove sorgeva un sanatorio.) È uno dei racconti più desolanti di Arlt, popolato dalle sue solite «canaglie» – il borsaiolo, il gobbetto morfinomane, l’assassino, l’ebreo –, nel quale la presenza incombente della morte, il senso di colpa e il penoso ricordo della donna idealizzata creano un’atmosfera lugubre e soffocante, spezzata solo dai colpi di tosse e illuminata dalla torcia elettrica di un infermiere: «l’inferno rosso». Anche qui, come in «Notte terribile», il protagonista ride a crepapelle al’idea dello scandalo provocato dalla sua lettera in casa di Ester Primavera, e come Ricardo Stepens rivendica il diritto di ridere da solo. E anche qui fa capolino la figura del fratello pronto a menare le mani per difendere l’onore di Ester, ma stavolta non c’è spazio per lo humor, e soprattutto non c’è via di fuga.
Con «La luna rossa» e «L’abito del fantasma» Arlt introduce nella sua narrativa elementi fantastici che in seguito si moltiplicheranno e andranno a costituire una parte significativa della sua produzione letteraria,3 insieme a racconti che appartengono a quella che poi si sarebbe chiamata «letteratura di genere»: polizieschi, d’avventura, di spionaggio. In «La luna rossa», sullo sfondo apocalittico di una catastrofe bellica planetaria, si intrecciano immagini grottesche di ippopotami, tigri ed elefanti che marciano insieme a un’umanità esterrefatta e sonnambula in uno scenario futurista, ma neanche in questo caso Arlt rinuncia alla sua graffiante critica sociale e immagina un gruppo di anziani i cui «sguardi duri e autoritari riflettevano un’implacabile sicurezza e autorità» mentre presiedono la «tavola rotonda di un consiglio d’amministrazione, per concedere un prestito capestro a uno Stato di negri e mulatti sotto i cui alberi scorreva la linfa del petrolio».
In «L’abito del fantasma» Arlt ripropone lo schema della confessione-autodifesa di un uomo rinchiuso prima in manicomio e poi in prigione con l’accusa di omicidio. Ma la vera onta che Gustavo Boer vuole scongiurare è quella di essere considerato omosessuale, e sorge il dubbio che tutto il suo delirante racconto non sia altro che il tentativo di passare per pazzo sottraendosi all’accusa di omicidio. Qui Arlt scioglie ogni indugio abbandonando il registro realista per entrare con decisione nel campo del fantastico attraverso le allucinazioni del narratore, consapevole che «L’avventura non aveva una logica. Questo è fuori discussione. Mancava di quell’eleganza confezionata apposta per gli avvenimenti romanzeschi».
Il racconto «Piccoli proprietari» ha il suo antecedente in un’aguafuerte intitolata «Filosofía del hombre que necesita ladrillos»: «Si è aperto un cantiere di fianco a casa sua. Lui ha bisogno di qualche mattone per completare un pilastro o per costruire una parete. Perché dovrebbe comprare dei mattoni se proprio lì, vicino al suo terreno, ne hanno scaricati quindicimila questa mattina?». Il profondo disprezzo di Arlt per l’avidità, la meschinità e l’ipocrisia della piccola borghesia, che emerge prepotentemente in tutta la sua opera narrativa, si scarica su Joaquín, «commesso viaggiatore e piccolo proprietario», con un occhio di vetro che a un certo punto si mette a lacrimare, e che ha pensieri «simili a sanguisughe».
Il dilemma del protagonista di «Notte terribile» – sposarsi o darsela a gambe – era già stato risolto nello stesso modo, con la decisione di non sposarsi, nell’aguafuerte «Del que no se casa», dove fa capolino una delle tremende suocere della narrativa arltiana: «Mia suocera, o la mia futura suocera, mi guarda e grugnisce ogni volta che mi vede». In un’altra aguafuerte, il «Soliloquio del solterón», scriveva: «Ho avuto diverse fidanzate, e in loro ho scoperto unicamente l’interesse di sposarsi, ed è vero che dicevano di amarmi, ma poi hanno amato anche altri, il che dimostra che la natura umana è sommamente instabile, anche se i suoi atti vogliono ispirarsi a sentimenti eterni. E per questo non mi sono sposato con nessuna».
In «Notte terribile» troviamo anche, fin dall’incipit, tracce inequivocabili dell’espressionismo4 di Arlt: «… controtelai fosforescenti, linee perpendicolari blu, orizzontali gialle, oblique viola. Incandescenze gassose di aria liquida e correnti ad alta frequenza». È stato osservato che la Buenos Aires che esce dalle sue pagine di narrativa è una città più futuribile che realista, e troviamo analoghe descrizioni in «Luna rossa»: «Verso l’alto, in direzioni oblique, la struttura dei grattacieli dispiegava, su cieli verdastri o giallognoli, cubi in rilievo sovrapposti, dal più grande al più piccolo». Sembrano decisamente azzeccate le analisi critiche che hanno sottolineato l’influenza su Arlt del cinema espressionista tedesco e della pittura cubista francese. E sono ineccepibili le osservazioni di Beatriz Sarlo: «Arlt usa ciò che ha a portata di mano, soprattutto i saperi tecnici della chimica, della metallurgia e della fisica, per costruire quella città che ancora non esiste. E quando descrive luoghi che esistono realmente, enfatizza o immagina oggetti futuristi: grattacieli, facciate di palazzi digradanti, insegne luminose al neon, macchine belliche, gru e cavi elettrici. La sua relazione con le utopie e distopie della modernità ha l’intensità inventiva della fantascienza. In Arlt gli scenari moderni non sono meramente architettonici. Sono spazi faustiani di violenza costruttiva o distruttiva»5.
Ma se i racconti di El Jorobadito sono decisamente legati per tematiche, ambientazione e linguaggio ai suoi romanzi, lo stesso non si può dire di quelli riuniti in El criador de gorilas, nei quali Arlt ha riversato la fascinazione esercitata su di lui dalla scoperta dell’Africa nel 1934 («L’Africa è la Luna», scriverà), durante un breve viaggio in Spagna e Marocco, a Tetuan, Tangeri e Fez, inviato dal quotidiano «El Mundo». Infastidito dalle critiche al suo stile, puntualmente rintuzzate nel già citato prologo a Los lanzallamas, in questi testi Arlt riprende – ma solo perché funzionali alle sue narrazioni – certi elementi del decadentismo, dunque di una poetica letteraria «alta»; del resto, non aveva mai nascosto la sua ammirazione per Baudelaire e per Huysman. E così, questi racconti stordiscono con un’impressionante profusione di esotismo: donne fatali come Rauthia la ballerina, cantastorie ciechi, usurai, mercanti, greggi di schiavi e schiave, e naturalmente schiavisti, come la canaglia di Farjalla Bill Alí, e poi tappeti, babbucce, turbanti, monili, veleni, all’ombra di moschee e minareti, in un’atmosfera carica di profumi speziati e sensuali.
Qualcuno ha creduto di ravvisare solo questi tratti manieristici nei racconti «africani»; secondo Cortázar, per esempio, si tratta di «mediocri racconti esotici, nati da una tardiva e stupefacente conoscenza di altre regioni del mondo, e nei quali, salvo qualche passo, manca quell’atmosfera che è lo stile profondo delle sue opere migliori. Ora che Arlt scrive “bene”, poco rimane della terribile forza dello scrivere “male”»6. Del resto persino Juan Carlos Onetti, sincero e convinto estimatore di Arlt, nel prologo alla prima edizione italiana di I sette pazzi espresse un giudizio miope e piuttosto ingeneroso sui suoi racconti: «L’opera di Arlt può essere un esempio di carenza di autocritica. Dei suoi nove racconti raccolti in volume, questo lettore ne invidia due: “Le belve” ed “Ester Primavera” e spregia il resto». Gustavo Martín Garzo, che firma la prefazione ai Cuentos completos di Arlt pubblicata da Losada, sostiene invece, a proposito di El criador de gorilas, che si tratta del «più bello e strano dei suoi libri, dove l’Arlt scettico ed egolatra sembra scoprire la saggezza dei vecchi narratori e aprirsi insieme alla meraviglia e all’orrore del vivere». Ma nella postfazione allo stesso volume, David Viñas si schiera dalla parte dei critici: «Per chi scriveva Arlt questi racconti africani. Non posso fare a meno di domandarmelo perché, malgrado i miei sforzi per essere equanime, mi sembrano una raccolta di prefabbricati».
In realtà i racconti di El criador de gorilas riprendono alcune tipiche tematiche arltiane – il tradimento, la vendetta, l’ingiustizia, l’avarizia, la crudeltà –, declinate però in modo inedito («il male non viene più offerto come unica opzione, e il colpevole finisce sempre per pagare per quello che fa»7, scrive ancora Gustavo Martín Garzo) e con finali sorprendenti, come quello della donna che si allontana nella foresta tenendo per mano il piccolo scimpanzè in «La fattoria di Farjalla Bill Alí». Non manca peraltro una buona dose di cinismo che mette in discussione i presunti intenti moralistici di alcuni racconti; racconti che rivelano nello stesso tempo una severa critica al razzismo, allo sfruttamento, compreso quello dei minori, alla dura condizione della donna nella società musulmana e al colonialismo occidentale. Inoltre, sono impeccabili dal punto di vista narrativo, per l’economia e la padronanza dei mezzi usati, la potenza delle immagini, la scarna significazione psicologica dei personaggi, laddove il fulcro della storia sta nella successione degli eventi.
L’assenza di scavo psicologico dei personaggi, soprattutto se confrontati con i protagonisti dei romanzi, è un tratto che accomuna gran parte dei racconti mai raccolti in volume, particolarmente evidente in quelli di spionaggio7, come «La doppia trappola mortale», dove l’agente segreto, il capo dei servizi di intelligence e la bella spia, anonime pedine sullo scacchiere della politica mondiale, devono semplicemente svolgere la funzione già assegnata loro nell’immaginario collettivo dai film holliwoodiani. Ma anche l’ingegnere protagonista di «Un argentino in mezzo ai gangster» – investito dall’autore della semiseria responsabilità nazionale di battere sul piano dell’ingegno e dell’astuzia una banda di gringos – ci viene presentato con rapide pennellate: «era un uomo serio (…) era tranquillo (…) non era un tipo sentimentale»; mentre è prigioniero dei gangster, l’unica scarna annotazione sul suo stato d’animo si riduce a «Una rabbia gelida si srotolò nel suo cuore», dopo che ha ricordato la sua casa di Buenos Aires e le sorelle. E una volta che il suo piano è perfettamente riuscito non si lascia sfuggire nemmeno un sorriso sarcastico.
La stessa mancanza di definizione psicologica caratterizza Eugenio Delmonte, del quale sappiamo solo che in seguito all’abbandono della fidanzata «i suoi capelli erano diventati completamente bianchi» e che «le sue condizioni mentali non erano del tutto normali». Ciò che importa dei personaggi di questi racconti è quello che fanno, non quello che pensano o che si agita nella loro psiche, e in questo senso si muovono come attori teatrali sottoposti a un rigido copione.
Si tratta di una delle tematiche predilette da Arlt: la guerra di Eugenio Delmonte all’istituzione del matrimonio è la stessa che Arlt ha condotto nei romanzi e in particolare nell’ultimo, El amor brujo, in diverse Aguafuertes e in racconti come «Il gobbetto» e «Notte terribile». Ma lo humor che distillava a sprazzi da quest’ultimo racconto, come quando Il protagonista non riesce a trattenere le risate al pensiero «Cosa direbbe una coppia se ricevesse in dono, per esempio, una peretta o degli anticoncezionali», si installa fin dall’inizio in «Eugenio Delmonte e i 1300 fidanzati» e da il tono a tutto il racconto, nel quale torna un altro leitmotiv dell’opera arltiana: l’evento straordinario suscettibile di cambiare la vita, in questo caso un’eredità di «cinquanta milioni di dollari da un lontano zio» e l’opportunità per i «fidanzati» di cambiare aria e girare il mondo grazie alla vendetta di un folle.
La scelta che ha ispirato questa antologia è stata il tentativo di rendere conto di una produzione letteraria in gran parte inedita in Italia, evidenziando aspetti spesso misconosciuti della narrativa di Arlt, come l’umorismo e l’esotismo. Si è anche cercato di metterne in luce l’assoluta originalità, su cui si è espressa con la consueta lucidità Beatriz Sarlo nell’introduzione all’edizione critica di I sette pazzi curata da Mario Goloboff: «È stato un eccentrico perché la sua letteratura ha mischiato quello che non si era mai mischiato prima: il romanzo del diciannovesimo secolo, il feuilleton, la poesia modernista e il decadentismo, la cronaca di costume e la cronaca nera, i saperi tecnici. Come gli inventori popolari, Arlt dominava più o meno tutti questi discorsi. Eppure la macchina di Arlt funziona. Bricolage di scritture, di cui Arlt conosceva solo più o meno la poetica, lo scandalo della sua letteratura ha un’impronta sociale, che lui ha sempre messo in primo piano: “sono il diseredato, quello che viene da fuori, che non legge le lingue straniere, che non ha tempo per lo stile” ha scritto nel famoso prologo de Il lanciafiamme. Il prodotto del bricolage è sempre eccentrico e originale, perché è stato creato con quello che c’era a portata di mano, rimpiazzando le parti assenti con frammenti analoghi, ma non uguali. Per questo motivo il bricolage è instabile e da la sensazione di avere qualcosa di casuale e miracoloso. La macchina creata attraverso il bricolage è troppo complessa, a volte eccessiva. Le manca sempre un pezzo o ne ha uno in più. Arlt percepiva questa inadeguatezza della sua letteratura nei confronti della Letteratura. Oggi è il suo marchio di originalità».
NOTE
- Cronache pubblicate sul quotidiano di Buenos Aires El Mundo dal 1928 al 1942, anno della morte di Arlt. Riguardo alla scelta del nome aguafuertes, vale la pena ricordare che la tecnica aggressiva dell’acquaforte non contempla sfumature di grigio – o bianco o nero – e comporta l’uso di un acido corrosivo. Come ha scritto Loris Tassi: «Si tratta di un genere in continuo e confuso movimento che testimonia il gusto contaminatorio di Arlt: inchieste, bozzetti teatrali, critica letteraria, teatrale e cinematografica, accuse e autodifese, microracconti, riflessioni sulla scrittura, sua e di altri, appunti per un’antropologia (fantastica), ipotesi sull’origine di alcune parole del lunfardo e, soprattutto, tentativi di descrivere, con annotazioni brevi e significative, la città di Buenos Aires e i suoi abitanti». (Variazioni sul tema della lettura. L’opera di Roberto Arlt, Aracne, Roma 2007. Si tratta dell’unica monografia italiana dedicata ad Arlt.)
- La ficción del dinero. Piglia è tornato a varie riprese su Arlt, sia nei testi saggistici sia in quelli narrativi, Nombre falso e soprattutto Respirazione artificiale.
- Oltre che nei racconti «africani», l’elemento fantastico è centrale in «La muerte del sol», «La ola de perfume verde», e soprattutto in Un viaggio terribile (traduzione e cura mie, Arcoiris, Salerno 2014).
- La teorizzazione più compiuta dell’espressionismo in Arlt si trova in un saggio di César Aira del 1993, pubblicato sulla rivista Paradoxa: «L’espressionismo funziona grazie alla partecipazione dell’autore nella sua materia, l’intromissione dell’autore nel mondo, gesto che non può avvenire senza una certa violenza. (…) In Arlt il mondo espressionista, fatto di vicinanze eccessive e deformazioni per mancanza di spazio in un ambito limitato, un interno (il suo mondo è un interno), è un’opzione formale. È inutile pensarlo in termini psicologici o socio-storici o altro». (La traduzione italiana di Dajana Morelli si può leggere sul blog Sur: http://blog.edizionisur.it/23-01-2013/arlt-secondo-cesar-aira/).
- “Ciudades y máquinas proféticas”, La Nación, 26 dicembre 1999.
- In «Roberto Arlt: Apunte de relectura», prefazione a Obras completas di Arlt edite da Carlos Lohle nel 1981.
- L’interesse di Arlt per la politica internazionale e per il mondo delle spie è stato messo in luce grazie alla pubblicazione di due volumi che raccolgono gli articoli scritti per il quotidiano messicano El Nacional fra il 1937 e il 1941 (Al margen del cable, Losada, Buenos Aires, 2003) e per l’argentino El Mundo dal 1937 al 1942 (El paisaje en las nubes, Fondo de Cultura Económica, Buenos Aires, 2009), entrambi a cura di Rose Corral.