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César Aira e la traduzione

Forse non tutti sanno che per trent’anni César Aira ha esercitato il mestiere di traduttore. Da ben quattro lingue: francese, inglese, italiano e tedesco. Ancor più sorprendente, forse, il fatto che abbia affrontato questo impegno da autodidatta. Nel corso del tempo, in diverse interviste ha poi rilasciato dichiarazioni su questo aspetto della sua biografia. Ho provato a riunirne alcune delle più significative, e nella seconda parte di questa nota troverete un’ampia selezione. Prima però vale la pena accennare all’importanza che assume il tema della traduzione nei suoi romanzi. Del resto, non poteva essere diversamente, in un autore che confessa di scrivere prendendo spunto da ciò che gli  capita giorno per giorno. La particolare concezione della traduzione di Aira – non equivalenza, ma trasformazione – permetterà anche di contestualizzare certe sue affermazioni assai poco ortodosse, al limite della provocazione intellettuale.

Chi conosce almeno uno dei romanzi di Aira pubblicati in Italia (Ema, la prigionieraIl magoCome diventai monacaI fantasmi) si sarà reso conto che la digressione, spesso di tono saggistico, è uno dei leitmotiv della sua scrittura. Ebbene, le digressioni sul tema della traduzione nella sua opera (che conta ormai un’ottantina di romanzi, oltre a qualche saggio e raccolta di racconti) sono innumerevoli e sarebbe arduo darne conto per esteso; potrebbero diventare addirittura un filo conduttore nella sua lettura. La critica francese, molto più attenta e perspicace della nostra nell’accoglienza a questo autore, si è occupata della questione, e nel volume César Aira, une révolution – un numero speciale della rivista universitaria Tigre del 2005 – figura un saggio, «César Aira. Una pragmática traductora», di Ilse Logie, che esamina in particolare tre romanzi: La liebreEl congreso de literatura e La fuente, e così sintetizza: «Aira non definisce la traduzione come un succedaneo o una pallida copia dell’originale (concezione convenzionale), né come un vaso di Pandora che dissolve e posticipa infinitamente il senso (paradigma postmoderno). Piuttosto, la considera una strategia estrema, miracolosa, smisurata, che contribuisce a spezzare l’ordine della casualità e si imparenta con la metamorfosi e l’invenzione».
Il tema è centrale nel saggio che Aira ha dedicato allo scrittore inglese Edward Lear, famoso per i suoilimericks, poesie di cinque versi (rima aabba) che presentano qualche curiosa caratteristica di un personaggio che vive in una città nominata nel primo verso. Seguiamo il ragionamento di Aira:
«Per studiare questo curioso formato, la cosa più semplice è domandarsi come si potrebbe tradurlo. Prendiamo quello che in genere viene considerato il modello originale:

 

There was an Old Man of Tobago,
Lived long on rice gruel and sago;
But at last, to his bliss,
The physician said this:
To a roast leg of mutton you may go.

 

«Con tutta evidenza, è la rima che determina l’argomento di questa breve storia; se quest’uomo si cibava di sago, è perché viveva a Tobago; se fosse vissuto in un altro posto si sarebbe cibato di qualcos’altro. Il sago è una fecola, sicuramente salutare e insipida; in spagnolo è sagú. Per continuare con questa dieta, in spagnolo l’uomo dovrebbe essere vissuto a Moscú. Il traduttore deve scegliere fra il sagú e Tobago; se ne sceglie uno deve sacrificare l’altro, a meno che non sacrifichi completamente la rima. In questo caso tradurrà la poesia come il racconto che contiene: “C’era un vecchio di Tobago che per molto tempo si cibò esclusivamente di riso bollito e sagú; alla fine, per sua fortuna, il medico gli disse che poteva mangiare agnello arrosto”. È difficile, sebbene non impossibile, che un traduttore propenda per questa opzione: il testo non perde soltanto il suo fascino, ma sembra perdere anche il suo senso. Paradossalmente, nel momento in cui recupera il suo senso, lo perde. Il fatto è che originariamente, nella lingua in cui la poesia fu coniata, il suo senso consisteva nel perderlo. Perché nella sua lingua d’origine si stava effettuando una traduzione, che il passaggio a un’altra lingua non fa altro che materializzare come solipsismo o aporia.
«Se il traduttore sceglie di conservare le rime, tuttavia, in ogni caso deve tradurre la storia, per sapere di cosa si tratta. Il racconto può essere narrato in vari modi. Quello più pratico, per cominciare a cercare le rime nella seconda lingua, consiste nello sgombrare il campo da tutte quelle della prima: c’è un individuo che vive da qualche parte e che per motivi di salute si vede obbligato a cibarsi per anni o decenni di qualche alimento insipido, finché il medico lo autorizza a mangiare qualcosa di appetitoso. In questo schema del significato cadono tutti i dati circostanziali, che possono essere rimpiazzati. Si stabilisce una serie di triangolazioni, dal particolare (Tobago) al generale (luogo di residenza) per tornare a un altro particolare. Questo può essere Moscú, se si vuole conservare il sagú, ma non c’è alcun bisogno di farlo, perché anche il cibo fa la sua triangolazione. Tobago e sagú, mediante la traduzione, recuperano la completa indeterminazione che avevano un momento prima che si scrivesse la poesia, quando il poeta cercava le parole insieme all’argomento… Da quella ricerca poteva uscire qualsiasi cosa. Una volta che è uscito qualcosa, un solo elemento, tutti gli altri risultano più o meno determinati, stabilendo un continuum di necessità tra forma e contenuto».

E ora, ecco alcune dichiarazioni rese da Aira sull’argomento.

«Essendo traduttore di professione, io non leggo mai traduzioni. Sono come quei produttori di salsicce che mangiano qualsiasi cosa tranne le salsicce, perché sanno come si fanno».

«Io ho fatto il traduttore solamente per vivere. Non ho mai tradotto letteratura, se non in via del tutto eccezionale, alcune cose, un po’ per caso. Insieme a Kafka e qualche altro, ho tradotto Jane Austen, e alcuni autori francesi, o inglesi. No, fondamentalmente ho tradotto bestseller, commercial fiction [fra cui diversi romanzi di Stephen King, ndr]. Solo per guadagnarmi da vivere. Non mi è mai piaciuta la traduzione per la letteratura. La gente deve imparare le lingue e leggere i libri nella loro lingua originale».

In un’intervista concessa a Luis Dapelo, Aira amplia l’argomento:

«A un certo punto ho smesso del tutto di tradurre perché non ne avevo più bisogno economicamente. Per me era sempre stato un “lavoro per mantenermi”. Mi ero specializzato in ciò che gli statunitensi denominano commercial fiction, quei romanzi che iniziano come best sellers, perché sono più facili da tradurre [essendo scritti in una prosa stereotipata, ha chiosato in un’altra circostanza, ndr]; le case editrici pagano la stessa somma sia per i libri validi che per quelli scadenti, e quello valido è sempre più difficile. […] Devo molto alla traduzione perché è stato il lavoro della mia vita, e mi piaceva molto. Infatti, dopo aver smesso, mi sentivo strano, provavo nostalgia perché era un modo per organizzarmi la giornata, non ho mai lavorato tanto, sempre di mattina, avevo sempre la testa tra i libri, ma era come compiere un dovere e sentirmi la coscienza a posto. Il giorno in cui ho smesso è come se si fosse sgretolato qualcosa, ma ora mi sono adattato al dolce far niente».

«Ho cominciato a lavorare come traduttore, un lavoro poco redditizio e malpagato quando si traduce buona letteratura, ma diventa abbastanza redditizio se ci si mette solo quindici giorni per tradurre un’opera letteraria scadente. Io ho lavorato come traduttore per trent’anni. È così che ho tirato su i miei figli. E mi sono specializzato in cattiva letteratura, perché è più facile da tradurre… ci si mette meno tempo e si guadagna di più. Inoltre, questo mi ha dato l’opportunità di analizzare i testi: in genere hanno una buona tecnica romanzesca, di costruzione della trama e di padronanza dell’intrigo…»

«Comunque ho tradotto anche cose buone, un po’ per sfida, per vedere se riuscivo a farlo. E ora che ho smesso di tradurre professionalmente, lo faccio ogni tanto per amicizia, con qualche scrittore o amico. Mi sono azzardato perfino a tradurre Shakespeare. Shakespeare lo leggo da quando ero ragazzo, e mi ero detto: “Questo non lo tradurrò mai; se mi propongono di tradurre Shakespeare non accetterò mai, perché Shakespeare è ricchezza pura, una ricchezza concentrata”. In ogni verso di Shakespeare ci sono poesia, metafore, uno sviluppo dell’azione, una caratterizzazione del personaggio, tutto insieme, in ogni verso. Ma una volta un amico stava preparando, per la casa editrice colombiana Norma, una collana di opere di Shakespeare tradotte da scrittori ispanoamericani, me ne parlò e mi lasciò la scelta, e per fare qualcosa di diverso optai per Cimbelino, una delle sue ultime opere e tra le mie preferite. E l’ho tradotto. Mi è costato una fatica infernale, e così ho giurato a me stesso: “Mai più Shakespeare”. Eppure ci sono ricascato. E l’ho fatto per un motivo curioso: anni dopo mi chiamò una casa editrice per dirmi che volevano tradurre, non so bene perché, credo perché Harold Bloom ne avesse parlato, Pene d’amore perdute. Gli dissi che era l’idea più ridicola che poteva passargli per la testa, perché quell’opera non ha argomento, è una sequenza di giochi di parole, di scherzi linguistici. Come tradurre una cosa del genere? Proprio per questo, dissi: va bene, lo farò. Ho ricevuto molti elogi. Ma in quel caso non si trattava di una traduzione, è una questione di… non saprei che verbo impiegare, di ricreare ogni scherzo, ogni gioco di parole. L’ho preso come un gioco, come una sfida, per vedere cosa ne veniva fuori. Mai più, stavolta davvero. Anche se questi “mai più” hanno sempre un’eccezione».

«Ho preso la decisione di tradurre Cimbelino in prosa, in una prosa commentata. Perciò, di fronte a ogni metafora io non la traducevo, ma la spiegavo, a volte per cinque righe, laddove Shakespeare l’aveva detto in due parole. Ogni scherzo, ogni oscenità, che abbondano, li spiegavo per esteso. Quando ho consegnato la traduzione all’editore, mi ha detto: “Sembra un romanzo di Ivy Compton-Burnett”. In effetti, chi vuol leggere Shakespeare deve fare un piccolo sforzo, imparare un po’ d’inglese e leggerlo, perché non c’è altro modo. Le traduzioni possono servire, sia come guida per qualcuno che sta imparando la lingua, sia come esperimento per vedere cosa succede, che cosa si trasmette da una lingua all’altra. Non mi sono mai interessato granché ai problemi teorici della traduzione».

E non l’ha mai vissuto come un procedimento per la sua narrativa? Come un travaso?

«No, no. Credo invece che nel mio lavoro di scrittore sia intervenuto l’abituarsi a una prosa corretta. Al fatto che ogni frase abbia la sua struttura sintattica ben congegnata. Perché è questo che l’editore chiede al traduttore, una bella prosa. Bella nel senso di corretta, leggibile. A volte ho pensato che in questo modo avevo rovinato la mia prosa, che mi ero abituato a una correzione eccessiva. E ho addirittura pensato di diventare un po’ più selvaggio, di fare quelle cose che fanno i miei colleghi giovani, soprattutto frasi senza verbo, in cui tutto è a rovescio, ma in fin dei conti non credo sia un problema.»

«Comincio a tradurre senza aver letto niente del romanzo, vale a dire che la traduzione è una sorta di lettura mediante la quale mi interesso a poco a poco alla trama, che in genere è infinitamente stupida […] Dato che per me questo metodo di non leggere prima il romanzo, altrimenti mi annoio tremendamente, è assai rigido, diventa una specie di bizzarra avventura, perché a volte sopprimo un intero capitolo senza leggerlo. Una volta mi affidarono un romanzo immenso, di quelli romantici e mielosi, saranno state 800 pagine; e l’editore mi chiese di accorciarlo il più possibile. Allora mi lanciai in una potatura terribile; seguivo più o meno la trama, traducevo una pagina e ne saltavo cinque. Ero arrivato a 250 pagine nella mia traduzione e ne mancavano ancora 300 del libro. La trama principale si era conclusa e ne iniziava una secondaria… c’era un problema: si era smarrito un bambino (il figlio della protagonista); così le utlime 300 pagine scorrevano nel recupero di quel bambino che si era perso nei meandri dello spionaggio. Io ci pensai un po’ e, considerando che con 250 pagine avevo già fatto il mio dovere, rimpiazzai le altre 300 con una riga che diceva: “Recuperare Paquito non ci creò alcun problema”».

Infine, in una nota per «Babelia», il supplemento culturale del quotidiano spagnolo El País, in occasione del 150° anniversario della pubblicazione di Moby Dick, Aira scriveva:

«La prima frase di Moby Dick, “Call me Ishmael”, è il “c’era una volta” del romanzo moderno. La tradizione popolare lo ha reso celebre come modello di inizio eloquente, insuperabile e soprattutto inimitabile. Una bella testimonianza della sua fama si trova in una striscia di Charlie Brown, di Charles Schulz: a un certo punto, al cagnolino Snoopy viene in mente di scrivere un romanzo; dopo aver lavorato un bel po’, con la macchina da scrivere su tetto della sua cuccia, riesce a scrivere una prima stesura e la fa leggere a Lucy, l’amica ipercritica di Charles; lei glielo restituisce con un elogio pro forma e una critica seria: l’inizio è moscio, occorre qualcosa di più forte… Il cagnolino infila un foglio nella macchina, pensa un po’, e ricomincia: “Call me Snoopy”.

«Quell’inizio è un problema perenne per i traduttori. Alcuni hanno detto che quella frase da sola gli ha dato più lavoro di tutto il resto, che non è poco. Enrique Pezzoni, nell’elaboratissima traduzione che fece negli anni Sessanta per il Fondo Nacional de las Artes Argentino, optò per una formulazione curiosa: “Potete chiamarmi Ismael”. Quando gli domandai il motivo di quella scelta, mi disse che dopo aver provato cento alternative, tutte insoddisfacenti, si era accontentato di quella perché era un endecasillabo da cornamusa galiziana.

La difficoltà consiste nel capire cosa vuol dire quella breve frase. È uno di quei casi in cui non c’è abbastanza contesto per decidere, e insieme ce n’è troppo. Una possibilità sarebbe che il narratore preferisce non rivelare la propria identità, quindi propone un nome qualsiasi, per rendere più facile la conversazione. Salvo che non si tratta di una conversazione, ma di un racconto narrato da una sola voce; allora la cortesia sarebbe destinata all’immaginazione dei lettori, che disporrebbero di un nome centrale quando raccontassero la storia a se stessi, o a qualcun altro. Come se Alla ricerca del tempo perduto iniziasse con: “Potete chiamarmi Marcel”, o meglio: “Diciamo che mi chiamo Marcel”. Su questa stessa linea, si potrebbe pensare che l’enunciazione venga assunta dallo stesso Melville, che chiede di essere chiamato Ismael perché, per motivi tecnici, userà la prima persona…

«Mi viene in mente un’altra soluzione, così ovvia in realtà che mi meraviglierei se nessuno l’avesse mai proposta: “Potete darmi del tu” ( o “puoi darmi del tu”, perché un’altra ambiguità irresolubile è quella del singolare o del plurale dell’interlocutore). La lingua inglese, non coniugando i verbi e avendo un unico pronome per la seconda persona, non ha gradazioni diverse per la familiarità e il rispetto, e supplisce a questa carenza con la discriminazione di nomi e cognomi. Quando qualcuno si rivolge a un interlocutore più anziano o più importante, dice: “Mister Melville…”. Se questi preferisce cancellare la distanza, risponde: “Chiamami Hermann”, come noi diciamo “puoi darmi del tu”. Ovvio che bisogna avere qualche diritto per dirlo, perciò, se lo dice Ismael, questo può significare che è una persona anziana, o che è arrivato a essere presidente del consiglio di amministrazione di un’impresa di navigazione. Ma nel momento in cui lo dice ci avverte che per il momento rinuncia a qualsiasi superiorità e si propone come il ragazzo che era nel momento in cui viveva l’avventura. La qual cosa avrebbe conseguenze nell’interpretazione dell’intero romanzo: non si tratta di una di quelle avventure marinaresche che leggono i bambini, ma del racconto di un bambino, la storia di un’innocenza che si è estinta, così come possono leggerla gli adulti».

 

(Pubblicato sul blog di Sur.)

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